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domenica 11 agosto 2013

Palazzo della Civiltà in affitto: ma, in fondo, il travaso di bile è a sinistra

palazzociviltà

L'Eur spa ha ceduto per quindici anni il "Colosseo del ventesimo secolo" al marchio Fendi, di proprietà francese

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L'italiano vero ha 15 anni per riscattarsi dallo smacco, quello finto ostenta indifferenza ma,come sempre, rosica

C’è da ammetterlo: sulle prime è una di quelle notizie che producono rodimenti. Sapere che il Palazzo della Civiltà Italiana finirà in mano francese non può non sortire, nell’animo di quella porzione probabilmente minoritaria di italiani ancora sensibili al richiamo dell’amor patrio, un brivido di rabbia. Forse, nei più affetti dal fascino millenario di una nazione che ha ben più dei 150 anni che le vengono assegnati, anche un travaso di bile. 

Però, tanto per dimostrarsi superiori, è il caso di recuperare appena un po’di aplomb. Affidarsi pertanto al raziocinio, anzi alla razionalità, visto che si parla pur sempre di un magnifico esempio di razionalismo in architettura. 

Insomma, le cronache della “grande” stampa riportano che il “Colosseo quadrato” diventa un atelier, o poco più, e sembrano pure compiaciute. Il fatto è che Bernard Arnault, quarto uomo più ricco del mondo e padrone della Lvmh (Louis Vuitton Moet Hennessy), ha voluto fortemente regalare a Fendi, uno dei brand di sua proprietà, quella sagoma così inconfondibile, piantata dal Fascismo nel cuore dell’Eur. Cosa resa possibile, a patto di sganciare un adeguato cachet, dal fatto che il Palazzo è gestito da Eur spa. I soldi non mancano certo ad Arnault, l’Eur ha un discreto buco da coprire nel bilancio e Pierluigi Borghini (già candidato a sindaco contro Rutelli e capogruppo a Roma di Forza Italia), presidente dell’ente rimasto orfano dell’ad Riccardo Mancini, ha accettato, e pure di buon grado. Certamente, a Parigi non avrebbero consentito un affitto della Tour Eiffel a un inglese, oppure dell’Arco di Trionfo (figuriamoci) a un italiano. Però, qui a Roma, pecunia non olet. Anzi adeguiamoci: l'argent n'a pas d'odeur. 

Via libera, quindi, alla grandeur del marchio italiano… snaturalizzato Fendi, ovviamente subito dopo aver pattuito il canone di locazione. Certo, la pigione non è esattamente da quartiere popolare: la griffe che fa capo ad Arnault dovrà sborsare qualcosa come 240mila euro al mese (quasi tre milioni all’anno) per 15 anni. In compenso, potrà bearsi dei 12 mila metri quadrati nei quali creerà lo show room e realizzare nel resto dell’edificio il suo quartier generale. Contentino: al piano terra gli affittuari s’impegnano a utilizzare i mille metri quadrati per esposizioni dedicate alla creatività italiana. 

È pur vero comunque che, attraverso il marchio Fendi, Arnault ha dato dimostrazione di essere davvero un moderno mecenate e soprattutto un amante di Roma, finanziando dapprima con oltre due milioni il restauro della Fontana di Trevi e dando il via anche ad un’analoga operazione per il complesso delle Quattro Fontane. E ancora, come giustamente ha fatto notare il presidente di Fendi Pietro Beccari, occorreva far rivivere “un Palazzo che era chiuso da 72 anni”. Vagli a dar torto.

E allora chi appartiene a quella schiera di italiani sensibili all’amor patrio, può davvero consolarsi. Anche e soprattutto perché il vero travaso di bile è dietro i commenti compiaciuti di certi giornali (uno su tutti? Diciamolo: la Repubblica), che non mancano di definire l’opera “Palazzo Groviera” o di sbertucciarne gli architetti, fino ad asserire che fu fatto di marmo perché col fascismo ferro e acciaio scarseggiavano. Il che significa arrivare ad accostare Mussolini a Maria Antonietta, che in mancanza di pane voleva sfamare i francesi (sempre loro…) con le brioches.

Insomma, siamo alle solite. La svendita un po’ ignobile del “Colosseo quadrato” sul mercato immobiliare, come se fosse un pied-à-terre,  a qualcuno può far male, ma in qualcun altro non fa bene. Quella – il Palazzo delle Civiltà – è un’opera d’arte che da sé significa prestigio, che da sé significa Italia, che da sé significa Roma. Perciò, in qualcuno, smuove la stessa rabbia che ha poi prodotto l’anomalo squilibrio di vent’anni di fascismo e settant’anni di antifascismo. Squilibrio che è, a ben vedere, quantitativo perché, in origine, qualitativo. E quindi non potrà mai essere coperto.

Al limite, chi si sente erede di “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori” ha ora un tempo, stavolta di quindici anni, nel quale fare in maniera tale che l’Italia del 2028 possa fare del suo Colosseo del ventesimo secolo qualcosa in più di un atelier. Come dire: noblesse oblige. 

C’è da ammetterlo: sulle prime è una di quelle notizie che producono rodimenti. Sapere che il Palazzo della Civiltà Italiana finirà in mano francese non può non sortire, nell’animo di quella porzione probabilmente minoritaria di italiani ancora sensibili al richiamo dell’amor patrio, un brivido di rabbia. Forse, nei più affetti dal fascino millenario di una nazione che ha ben più dei 150 anni che le vengono assegnati, anche un travaso di bile. 

Però, tanto per dimostrarsi superiori, è il caso di recuperare appena un po’di aplomb. Affidarsi pertanto al raziocinio, anzi alla razionalità, visto che si parla pur sempre di un magnifico esempio di razionalismo in architettura. 

Insomma, le cronache della “grande” stampa riportano che il “Colosseo quadrato” diventa un atelier, o poco più, e sembrano pure compiaciute. Il fatto è che Bernard Arnault, quarto uomo più ricco del mondo e padrone della Lvmh (Louis Vuitton Moet Hennessy), ha voluto fortemente regalare a Fendi, uno dei brand di sua proprietà, quella sagoma così inconfondibile, piantata dal Fascismo nel cuore dell’Eur. Cosa resa possibile, a patto di sganciare un adeguato cachet, dal fatto che il Palazzo è gestito da Eur spa. I soldi non mancano certo ad Arnault, l’Eur ha un discreto buco da coprire nel bilancio e Pierluigi Borghini (già candidato a sindaco contro Rutelli e capogruppo a Roma di Forza Italia), presidente dell’ente rimasto orfano dell’ad Riccardo Mancini, ha accettato, e pure di buon grado. Certamente, a Parigi non avrebbero consentito un affitto della Tour Eiffel a un inglese, oppure dell’Arco di Trionfo (figuriamoci) a un italiano. Però, qui a Roma, pecunia non olet. Anzi adeguiamoci: l'argent n'a pas d'odeur

Via libera, quindi, alla grandeur del marchio italiano… snaturalizzato Fendi, ovviamente subito dopo aver pattuito il canone di locazione. Certo, la pigione non è esattamente da quartiere popolare: la griffe che fa capo ad Arnault dovrà sborsare qualcosa come 240mila euro al mese (quasi tre milioni all’anno) per 15 anni. In compenso, potrà bearsi dei 12 mila metri quadrati nei quali creerà lo show room e realizzare nel resto dell’edificio il suo quartier generale. Contentino: al piano terra gli affittuari s’impegnano a utilizzare i mille metri quadrati per esposizioni dedicate alla creatività italiana. È pur vero comunque che, attraverso il marchio Fendi, Arnault ha dato dimostrazione di essere davvero un moderno mecenate e soprattutto un amante di Roma, finanziando dapprima con oltre due milioni il restauro della Fontana di Trevi e dando il via anche ad un’analoga operazione per il complesso delle Quattro Fontane. E ancora, come giustamente ha fatto notare il presidente di Fendi Pietro Beccari, occorreva far rivivere “un Palazzo che era chiuso da 72 anni”. Vagli a dar torto.E allora chi appartiene a quella schiera di italiani sensibili all’amor patrio, può davvero consolarsi. Anche e soprattutto perché il vero travaso di bile è dietro i commenti compiaciuti di certi giornali (uno su tutti? Diciamolo: la Repubblica), che non mancano di definire l’opera “Palazzo Groviera” o di sbertucciarne gli architetti, fino ad asserire che fu fatto di marmo perché col fascismo ferro e acciaio scarseggiavano. Il che significa arrivare ad accostare Mussolini a Maria Antonietta, che in mancanza di pane voleva sfamare i francesi (sempre loro…) con le brioches.

Insomma, siamo alle solite. La svendita un po’ ignobile del “Colosseo quadrato” sul mercato immobiliare, come se fosse un pied-à-terre, a qualcuno (a noi) può far male, ma in qualcun altro (in loro) non fa bene. Quella – il Palazzo delle Civiltà – è un’opera d’arte che da sé significa prestigio, che da sé significa Italia, che da sé significa Roma. Perciò, in quel qualcuno, smuove la stessa rabbia che ha poi prodotto l’anomalo squilibrio di vent’anni di fascismo e settant’anni di antifascismo. Squilibrio che è, a ben vedere, quantitativo perché, in origine, qualitativo. E quindi non potrà mai essere coperto.

Al limite, chi si sente erede di “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori” ha ora un tempo, stavolta di quindici anni, nel quale fare in maniera tale che l’Italia del 2028 possa fare del suo Colosseo del ventesimo secolo qualcosa in più di un atelier. Come dire: noblesse oblige

Robert Vignola

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