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martedì 19 marzo 2013

Il tempo dei “Fuochi”

di Alessio Aschelter
fuochi

Buttafuoco

I Fuochi accesi da Pietrangelo Buttafuoco, nell’ultimo novembre
presolstiziale, anziché annunciare la rinascita, come si conviene al rito, sembrano profetizzare l'avanzata delle tenebre. Dalla religione
alla geopolitica, dalla politica al costume, passando per la cultura, non v'è campo dell'agire che sfugga all'oscurità di un mondo a trazione occidentale. Tra un articolo ed un'intervista, raccolti nel volume
uscito per Vallecchi, appaiono però degli esempi che, come fuochi, per l'appunto, squarciano il buio e annunciano il risveglio. La varietà
degli argomenti trattati sottende una coerente visione che disarticola persino il conformismo di certi anticonformisti.
A cominciare dalle radici, troppe profonde nel tempo e troppo lontane nello spazio per essere rinvenute nella sola cristianità. Scava, scava
sono là dove si leva l’alba. I progenitori, dall'India, si stanziano
in Europa, dove pongono le fondamenta della civiltà che in Grecia e in Roma trovano, in un ordine politeista, solidità e longevità. «Tutti i tesori
del pio culto pagano», osserva Buttafuoco, in piena vulgata antiaraba, sono raccolti dall'Islam. Non una goccia di razzismo in nome di presunte superiorità che sono invece tutte un fatto testamentario e
illuminista, il cui combinato disposto porterà l'intellettuale catanese a considerare Breivik, lo stragista norvegese, un prodotto del  protestantesimo che nulla ha a che spartire «con le divinità nordiche in genere, con quel pantheon sacrissimo di ghiaccio e
luce…».

Nel delirio antisaraceno, la prosa al fiele di Oriana Fallaci suona la carica a Bush figlio impegnato a radere al suolo l'Iraq social nazionale
di Saddam, mentre la destra più ottusamente retriva plaude
ai sermoni antislamici della giornalista fiorentina, dimenticando
le antiche convergenze tra fascio e mezza luna. Ma in quella notte in cui l'Occidente sprofonda, Buttafuoco intercetta una luce anche nel fronte che non smette di avversare. Le parole rivolte da Fabrizio Quattrocchi ai suoi assassini, provocano un patetico tentativo
di rimozione da parte della Farnesina. «Vi faccio vedere come muore un camerata italiano » avrebbe detto il «soldato di ventura» ai tagliatori di testa quando la loro lama comincia ad affondare tra il collo e il
capo. Un’estetica della fine che si ritrova nei paracadutisti che
ad El Alamein fronteggiarono l'avanzata dei carri inglesi armati
soltanto di bottiglie incendiarie.
Conquistarono i campi elisi. Come Gheddafi che innanzi alla ferocia partigiana equipaggiata, come sempre, da mano straniera ci lascia un documento filmato destinato a contorcere la nostra sudicia coscienza. Il walhalla di Buttafuoco è impreziosito da eroi senza confini, come il leggendario barone Ungern-Sternberg, giustiziato dalle
guardie rosse nel settembre del 1921 non prima di aver inghiottito la croce di san Giorgio.
Fatica tuttavia a trovare nell'Italia odierna, ridotta al rango di mera «espressione geografica», uno spunto dal quale ripartire.
Non lo trova certo nella sua Sicilia, dove è messo in catene per quasi un anno l'amico Sandro Monaco, imprenditore edile accusato di concorso esterno in associazione mafiosa con il clan Santapaola e
ostaggio di un vessatorio regime carcerario. Alla testa dei suoi cento dipendenti, padri di famiglia «tutti incensurati»,il gentiluomo di Regalbuto, già parte civile in diversi processi di mafia, per salvare la sua azienda dagli attentati, paga gli estorsori. Un caso di malagiustizia
che vedrà i professionisti dell'antimafia in omertoso silenzio. Non lo trova, Buttafuoco,uno spunto da cui ripartire neanche da quel mondo
da cui egli proviene. Quel microcosmo di reietti, un inatteso giorno di marzo di diciannove anni fa, torna, grazie al Cav., a “riveder le stelle”
che - Buttafuoco non si sottrae - «ci cambiò la vita». Il bozzetto
che ne esce vale più di tanti saggi pubblicati sui postfascisti al tempo dell'Italia berlusconiana, la cui ultima appendice si consumerà a palazzo Grazioli, residenza del vizio. Lì il suo inquilino, sintonizzato con il comune sentire dell'italiano medio, preferirà «senz’altro il fottere al comandare». E i buttafuori di Silvio, che si era fatto vanto di quanto pluralismo albergasse nelle sue aziende, tanto da annoverare
progressiste schiere nelle file del biscione, mettono alla porta di Panorama e de Il Foglio proprio Buttafuoco, reo di aver pubblicato su La Repubblica, il giornale nemico ma non così gaglioffo da farsi scappare il migliore, il “Dizionario dei destrutti”, un glossario cimiteriale
dell’eredità politica lasciata dall'uomo di Arcore.
Per gli ex camerati, invece, la penna più brillante in circolazione
riserva soltanto disprezzo.
L’inconsistenza culturale di Fini lascia presagire l'esito nefasto a cui sarebbe andato incontro l'ex Msi, incapace di assorbire la lezione
di Beppe Niccolai; la sorprendente vittoria di Alemanno lo porta invece, in spensierata solitudine, a scendere dal carro, proprio quando tutti gli
altri vi salivano, mentre sul Campidoglio smise di verdeggiare il sacro alloro. Il sindaco barese ha deluso anche Giacomo Puccini.
Il riscatto per Buttafuoco riposa nel destino. Che egli
decifra nell’Eurasia. Uno spazio sterminato dove si rovesceranno
tutti gli attuali paradigmi.
Pagina dopo pagina si respira un'inconsueta freschezza, rispetto
alla cappa conformistica che avvolge il giornalismo italiano. A squarciarla ci pensa l'autore che si scaglia contro il provincialismo
yankee di Gianni Riotta, la flaccida banalità di Fabio Fazio, l’improbabilità estetica di Tiziano Terzani che si ridimensiona sino a rimpicciolirsi se comparato al gigante Giuseppe Tucci. E fa cadere la
maschera persino ai padri della Repubblica nata dalla Resistenza. Non solo Scalfari, verso il quale lo scrittore siciliano nutre profonda ammirazione, svela il retroscena che lo allontanerà dal fascismo, ma anche Bobbio confesserà la sua adesione sino ad allora taciuta per vergogna.
I custodi dell'ortodossia antifascista non possono, soprattutto nel secondo caso, farla passare. A menar le danze sarà Lerner che accusa Buttafuoco di aver giocato, al filosofo torinese, se non una
trappola, un «rovistare impudico», quasi fosse un tentativo di circonvenzione di incapace.
Un'infamia confutata dallo stesso intervistato che dalle colonne de La Stampa conferma, rigo per rigo, quanto confidato al giornalista de Il
Foglio. Anche quando si volta l’ultima pagina, i Fuochi torneranno
ad accendersi per essere di nuovo sfogliati, come fossero canzoni da riascoltare.
Perché Buttafuoco della scrittura ha fatto musica.

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