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giovedì 31 maggio 2012

L’asilo di Rignano, la macelleria alla Diaz, la “normalità” per niente normale

verita

Quello che colpisce – che dovrebbe colpire – della vicenda dei presunti abusi nell’asilo Olga Rovere di Rignano non è tanto la sentenza di assoluzione a fronte della pesante richiesta del Pubblico Ministero che aveva chiesto dodici anni di carcere per gli imputati. Quello che colpisce – che dovrebbe colpire – è che per giungere a “il fatto non sussiste”, i cinque imputati abbiano dovuto attendere sei anni, perché l’inchiesta è partita appunto nel 2006, e che per attendere un verdetto di primo grado se ne siano dovuti attendere due. Sei anni – e gli ultimi due in particolare – da presumere vissuti dagli imputati come un inferno, e in particolare in una comunità piccola come quella; giorni di amarezza e sofferenza che, che nessun risarcimento (se mai ci sarà) potrà mai ripagare; un alone di sospetto che nessuna sentenza fugherà mai. E non è certamente finita qui, perché abbiamo già sentito preannunciare che alla sentenza verrà opposto appello.

Si obietterà che sono i tempi “normali” della giustizia italiana. Ed è appunto questo il nodo della questione: ritenere ormai “normale” che cittadini accusati di reati gravissimi e infamanti come quello di essere “orchi” che avrebbero seviziato e fatto violenza a una ventina di bambini, per essere assolti o condannati (in primo grado, si ripete) debbano attendere sei anni.

Sempre ieri abbiamo potuto conoscere le motivazioni con le quali la Corte di Cassazione ritiene che nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro “non si è acquisita alcuna prova o indizio di un coinvolgimento decisionale di qualsiasi sorta nell’operazione Diaz”. L’operazione Diaz, come viene sobriamente definita, è la irruzione, degna della polizia di un paese sud americano negli anni delle dittature di Pinochet o di Videla, in una scuola dove dormivano dei ragazzi colpevoli di nulla, e massacrati senza motivo, dopo aver utilizzato come pretesto per “l’operazione” coltellate che i presunti poliziotti accoltellati si sono letteralmente inventati, e il falso ritrovamento di un paio di bottiglie molotov per legittimare a posteriori l’arresto in presunta flagranza dei 93 no-global della Diaz. Per inciso: dovendo custodire da qualche parte le due bottiglie molotov “trovate” la brillante idea fu quella di affidarle alla polizia stessa. Che fine abbiano fatto lo si può ben immaginare.

De Gennaro in secondo grado era stato condannato per concorso in falsa testimonianza; i giudici della Cassazione, nell’annullare senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello, parlano di “deserto probatorio”.

Non c’è motivo di dubitarne. Si possono riempire scaffali di librerie con vicende di “colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio”, che si rivelano protagonisti loro malgrado di storie fondate sul “deserto probatorio”. Per la Cassazione, la specifica condanna di De Gennaro è “piena di formule come non può sostenersi” e “non può non ritenersi”, quasi a voler rafforzare un impianto debole; si confondono le cause con gli effetti, “in palesi errori di diritto”.

Ora, a parte “i palesi errori di diritto”, che dovrebbero inquietare, visto che si tratta di vera e propria condanna emessa dai magistrati della Cassazione nei confronti di loro colleghi della Corte d’Appello (nel linguaggio della sòra Cecioni: sono degli ignoranti), quello che colpisce – che dovrebbe colpire – è che tutta la vicenda si riferisce a fatti che si sono verificati la sera tra il 21 e il 22 luglio del 2001, “solo” undici anni fa. E anche qui si dirà che è “normale” per i tempi della giustizia italiana che una vicenda cominciata nel 2001 finisca nel 2012.

Questa “normalità” è combattuta solo da Marco Pannella e da pochi altri come lui; e anche questo è considerato “normale”. Tutte le discussioni, i dibattiti, i confronti, meritano attenzione, considerazione, rispetto. Ma è di questo che si vorrebbe fosse finalmente avviato un vero confronto, un vero dibattito, una vera discussione. E invece…

Valter Vecellio

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