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sabato 29 ottobre 2011

Sì, viaggiare... purché si arrivi a destinazione con andamento lento

Renato Berio

slow travel

Anche il viaggio, soprattutto il viaggio, può diventare l'esperienza principale del vivere slow. Gaia De Pascale, studiosa di letteratura e di antropologia, ha cercato di spiegare perché nel suo libro Slow Travel (Ponte alle Grazie, 2008) che è un invito alla riconquista di una "mobilità dolce e consapevole". Una scommessa ambiziosa la sua: quella di conciliare turismo di massa e qualità ella scoperta che ciascuno di noi sperimenta nel viaggio che ha scelto di fare, purché si prenda il suo tempo per esplorare, per "assaporare" l'atmosfera di un luogo che a volte vale di più della fila forzata per sbirciare un quadro o un monumento famoso.
Come mai però anche se da tempo si tesse l'elogio della lentezza il vivere slow è così poco praticato?
Penso che sia una questione di educazione, noi dobbiamo ri-educarci all'uso diverso del tempo. Ci sono gli impegni e c'è il tempo libero e così noi organizziamo le nostre giornate come se tutto, anche i momenti di relax e di svago, fossero parte di una lotta contro il tempo. Ma il tempo non lotta contro di noi, che abbiamo la possibilità di scegliere quale qualità dare al tempo. Togliamo un po' di carne al fuoco dei nostri appuntamenti per riscoprire ciò che davvero ci fa piacere. Nel viaggio deve funzionare così: occorre recuperare l'idea del viaggio come esplorazione anche oggi, soprattutto oggi, in un tempo in cui pensiamo che tutto sia stato già esplorato.
C'è tutta una filosofia dietro il vivere slow, un modo di pensare antimoderno o un modo per difendersi dall'eccesso di nevrosi?
Direi sicuramente la seconda. Non a caso tutto nasce dallo slow food, dalla contrapposizione a una tendenza globale che ci vede consumare i pasti in fretta, a buon mercato, in piedi, mentre siamo presi da altre attività. In questa pratica c'è un'evidente perdita di qualità e mangiare diventa una funzione biologica mentre si tratta di una funzione che deve anche procurare piacere, compreso il piacere della convivialità. Non si tratta di tornare all'antico ma solo di capire che esistono alternative a stili di vita nevrotici e con ritmi stressanti.
Ma per le nuove generazioni, che addirittura misurano il tempo attraverso i minuti scanditi sul cellulare e non usano nemmeno l'orologio, quale senso può avere un discorso del genere? Non c'è il rischio che si tratti di un ragionamento snobistico, legato a élite un po' attempate?
È vero che le nuove generazioni vivono immerse nella velocità e si abituano in modo impressionante alle variazioni della tecnologia. Io ho 36 anni e ho invece più difficoltà e stare dietro alle innovazioni che loro usano con naturalezza. Il pensiero di un ragazzo di vent'anni oggi è strutturato in modo diverso. Eppure mi sembra che negli ultimi anni proprio i giovani abbiano riscoperto il viaggio realizzato con uno stile differente, basti pensare al boom di persone, soprattutto giovani, che intraprendono il Cammino di Santiago e non lo fanno solo per motivazioni religiose. Diciamo allora che quando si arriva a un eccesso di velocità si producono quasi inconsciamente gli anticorpi che spingono nella direzione opposta.
Che definizione darebbe dello slow travel?
Uno slow travel è quello in cui c'è un nuovo concetto di lusso, che non è quello di spendere o di accumulare mete e luoghi visitati, ma è proprio il lusso di prendersi il piacere e la libertà di fare cose che nella vita di tutti i giorni non fai, di dare attenzione anche al modo in cui si raggiunge un luogo, di capire quali sono i cibi tipici, di usare mezzi alternativi come il treno, la bicicletta o il viaggio a piedi. Questo tipo di viaggio tra l'altro avvicina molto alle popolazioni locali e rappresenta anche il modo migliore per affrontare il contesto di un paese come l'Italia, che accanto alle grandi mete ha borghi e luoghi sconosciuti, trascurati, tutti da scoprire in un modo alternativo che risulta anche molto divertente.
Quanto ha pesato Kerouac nella composizione del suo manuale sullo slow travel?
Ha pesato molto. Nel mio libro infatti cito proprio un episodio iniziale di On the road quando il protagonista prima di partire si leva l'orologio e lo butta via. Il suo viaggio diventa così senza tempo. Questa tradizione, questo modo di guardare al viaggio, che ha caratterizzato un periodo della storia letteraria e culturale, colpisce ancora l'immaginario giovanile e dunque esercita ancora un potere di attrazione. Questo spiega anche il successo di un film come Into the Wild, il cui protagonista decide di mollare tutto per avventurarsi in Alaska. Da questo punto di vista il viaggio diventa anche metafora di libertà, ed è proprio questo aspetto che colpisce e affascina i giovani.
Lei ha studiato a lungo la letteratura di viaggio del Novecento. Quali autori in particolare hanno ispirato la sua filosofia sul "viaggio lento"?
Questo tipo di letteratura ha ispirato il mio primo libro, Scrittori in viaggio, dedicato all'analisi di 42 testi di scrittori italiani. Una produzione vastissima in cui però privilegio due titoli. Il primo è Lettere dall'India di Guido Gozzano, del 1912, che mi ha colpito perché l'autore inserisce alcuni artifici inventati per dare un'idea di un paese esotico ma riesce con queste invenzioni a dare un'idea dell'India più vera del vero. L'altro libro è di Gianni Celati, Avventura in Africa, del 1997, che è particoalrmente godibile perché descrive se stesso con ironia, non appare preso dal suo ego di artista, e si mette nella mischia dei turisti confessando che ci sono molte cose che non sa e che non capisce. Il modo migliore, secondo me, per avvicinarsi alla comprensione degli altri.

 

Da www.secoloditalia.it

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