Vogliamo giustizia!

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Giustizia per i morti di Bologna

Ultimissime del giorno da ADNKRONOS

sabato 27 febbraio 2010

Carlo Bertani e le badanti

 
 

 From:
Luigi

 
 

Articolo molto interessante quello qui sotto esposto.Perchè permette di evidenziare una situazione assurda e paradossale.Quella di chi ,spesso proveniente dalle file della sinistra intellettuale e parolaia,si trova di fronte ai guasti di sessant'anni di occupazione antifascista.

Carlo Bertani nell'articolo sottoesposto ci parla degli italiani che ,secondo la litania oggi imperante nei giornali e nella televisione,non hanno più voglia di lavorare,sono dei bamboccioni,delle puttanelle che aspirano solo al ruolo delle veline ecc.

E come del resto fa Saviano,si perde in un elogio degli stranieri.Stranieri che sono "come gli italiani di una volta",gente con il senso della famiglia,capaci di lavorare e sopportare con serenità le ingiustizie,donne che non si schifano di accudire bambini e vecchi ecc.

Sembra di sentire,per ironia della sorte,la propaganda fascista sui popoli giovani e forti,ricchi di figli e donne fertili,che sostuiscono quelli vecchi e viziati.

Guarda caso però non una parola sulle cause culturali dello sfascio della gioventù italiana .

Difficile dare la colpa alla cultura fascista,marginalizzata e demonizzata.

Necessario chiamare in causa chi ha governato,per conto dei vincitori della seconda guerra mondiale,sessant'anni l'Italia.

Da dove viene infatti l'individualismo borghese e consumista,il femminismo e le mode culturali che hanno visto la famiglia tradizionale come nemica?

Chi ha considerato come grande progresso la vittoria dei "diritti" individuali contro il collettivismo dei doveri tipico delle culture tradizionali?

Non una parola da parte degli intellettuali sul bagaglio culturale di cui essi stessi sono figli,perchè il riconoscere la società schifosa da loro disprezzata,figlia degenere della cultura democratica e antifascista significherebbe ammettere di avere sbagliato tutto.

Sarebbe la morte ideologica.

Meglio quindi non toccare assolutamente il tasto delle ragioni culturali sul motivo per cui gli italiani sono dei degenerati.Lasciare che le cose stiano così e chiamare gli stranieri a dare linfa umana e vitale ad un'Europa antifascista stanca,vecchia e viziata.

La rimozione della realtà è il dato di fatto che rappresenta la spia dell'atteggiamento malato della cultura di sinistra nei confronti degli accadimenti del mondo contemporaneo.

Milioni di stranieri vengono fatti venire in Italia con la giustificazione che gli italiani fanno schifo,non hanno più voglia di lavorare e devono e meritano di essere sostituiti da stranieri.Pronti ad accettare qualsiasi condizione pur di entrare illegalmente in un paese che non li vuole.

La cultura di destra approva questo sfruttamento in nome dell'ideologia liberale mondiale,quella di sinistra in nome dell'egualitarismo,e quella cattolica in nome del cristianesimo livellatore.

Il sindacato plaude a una manovra che distrugge tutte le conquiste sociali guadagnate in anni di lotta e crea le condizioni per la sua scomparsa.

Nessuno ci spiega come potranno andare d'accordo i tanto disprezzati italiani bamboccioni e i tanto celebrati stranieri sgobboni in un contesto di disgregazione identitaria e concorrenza economica.

Come possano 140 etnie differenti e conviventi nella stessa città vivere in armonia sommando i propri egoismi e avendo come elemento comune la cultura dei soldi,del successo individuale e della concorrenza.

Lo straniero che  viene in casa nostra vuole partecipare non alla cultura italiana che gli italiani stessi hanno dimenticato,storditi come sono dalla pseudocultura dei vincitoridella seconda guerra mondiale,bensì a quella che ha trasformato gli italioti in bamboccioni e puttanelle.Cioè quella dell'"american way of life" multirazziale e multietnica.

Nel migliore dei casi diventa come noi e quindi come Bertani e Saviano,nel peggiore un disadattato ghettizzato.

Ottimo risultato non vi pare?

  
 

 
 

 
 

http://www.carlobertani.blogspot.com/

19 febbraio 2010

Le badanti

 
 

Je veux dédier ce poème

A toutes les femmes qu'on aime

Pendant quelques instants secrets.

A celles qu'on connaît à peine

Qu'un destin différent entraîne

Et qu'on ne retrouve jamais

 
 

Voglio dedicare questa poesia

a tutte le donne che si amano

per qualche segreto istante.

A quelle che si conoscono appena,

che un diverso destino coinvolge

e che non s'incontrano mai.

 
 

Antoine Paul – Les passantes – 1911

 
 

Svoltano l'angolo della viuzza, antica come il rintocco delle campane, e si gettano frettolosamente nella statale: l'attraversano e si fermano di fronte alla Farmacia. Sembrano aver fretta, attendere qualcuno, essere attese.

Sono due, grassottelle e bionde, hanno entrambe le mani occupate a reggere pesanti sporte colorate: grandi borse di paglia intrecciata, sulle quali s'intravedono le ombre d'improbabili scenari tropicali. Tropici del tempo che fu – verrebbe da dire – tanto le palme ed il mare sono sbiaditi.

Attendono nervosamente, con l'ansia di chi spera: che cosa e come non si sa, ma si spera.

Forse c'è la paura d'esser giunte in ritardo, la speranza che altri ritardino, oppure che l'orologio sia rimasto sapientemente puntato qualche minuto avanti, per non concedere al tempo il lusso di sfuggire.

Parlottano, con quella cantilena russa che arrotonda le vocali e le allunga, per poi troncare la parola in un amen, come a dire che la vita può essere sì armoniosa, mentre il destino è sempre incerto.

 
 

Un furgone bianco, che appare dopo aver svoltato la curva, tronca a metà la frase: non sapremo mai se erano confidenze d'amore oppure trepidazioni di madri, poiché quel furgone bianco è il deus ex machina che irrompe nel proscenio, e tutto tacita.

E si ferma, proprio accanto alle donne.

Miracolosamente, la scena si anima e si tinge di nuovi colori: anche le stampe scolorite delle borse sembrano riprendere vigore.

Due uomini scendono: sono magri e slanciati, capelli scuri, giubbe con mille tasche che possono contenere di tutto, scarpe da tennis ai piedi. E parlano.

 
 

Non capisco – ovvio – cosa si dicono ma sembrano reminescenze di qualcosa che è lontano, oltre l'orizzonte del tempo, mentre comunicano con frasi brevi: a volte un sorriso sboccia furtivo sui visi delle due donne, oppure un gesto pare quasi voler cancellare la frase appena udita.

La scena adesso prende vigore ed accelera, poiché i due uomini aprono il vano posteriore del furgone e salgono: il contenuto delle borse viene svuotato con cura e, ogni pacchetto, trova un posto che sembra esser già stato assegnato all'inizio dell'avventura, quando il furgone era ancora nella pianura ucraina, placidamente adagiato nell'aia di qualche dimenticata cascina, oppure in un capannone della zona industriale.

Appena le mercanzie hanno raggiunto il loro posto, le borse tornano a riempirsi con altri, misteriosi, involti: non smettono di parlare, di gesticolare, di sorridere.

Terminata l'operazione, i saluti sono furtivi, come quelli dei viandanti nella notte: i due autisti riprendono posto in cabina, ripartono, e le due donne tornano ad imboccare le antiche viuzze del centro storico. L'ultima immagine che la mente registra è una targa ucraina, con misteriosi caratteri cirillici mescolati ad altrettanto intelligibili lettere dell'alfabeto latino.

 
 

Quella stessa mattina, so che arriverà la legna: l'Inverno è duro, e non basta mai.

Come tutti gli anni, e tutte le volte che arriva il camion con la legna, già so che Ivan – l'amico "del cuore" di mio figlio – ci sarà. E, come tutti gli anni, si ripeterà la solita cerimonia: non voglio soldi perché io amico. Risposta: proprio perché sei un amico, possiamo farti un regalo? I soldi per la pizza?

Se sono soldi per la pizza allora va bene, Ivan accetta, altrimenti l'amicizia – se fosse stato salariato – sarebbe infranta.

Ma mio figlio lo invita a pranzo, e Ivan non può sottrarsi: anche in quel caso, l'amicizia sarebbe per lo meno incrinata. Deve però recarsi a casa – solo per lavarsi, so che è una scusa – e se ne va.

Torna che profuma di doccia appena fatta con due pacchetti, che posa sul tavolo, precisando che sono per me: si vede che il capofamiglia – in Ucraina – ha ancora un ruolo che da noi s'è perso.

C'è una bottiglia di vodka ed il classico formaggio "a fili", che assomiglia alle nostre scamorze affumicate e serve ad accompagnare la birra fatta in casa: Ivan, ogni tanto, si ferma con noi a bere una birra e, sempre ogni tanto, porta un po' di formaggio. L'equilibrio è perfetto, le tradizioni rispettate: tutti possiamo ancora crederci uomini, "sotto il vento e le vele".

 
 

Ivan non s'offende se mi sbaglio e lo chiamo "russo", anche se mi ha raccontato che è di Lviv, quasi in Polonia, perché c'è un'anima comune che va oltre la geografia e la politica. Anzi, mi sussurra anzitempo di conoscere già il nome del vincitore alle prossime elezioni: «Sarà Yanukovich, è meglio per tutti.» Pragmatismo slavo, merce che talvolta si pensa che non esista, spesso subissata dalla nostra idea dell'oriente slavo: dalla mattanza jugoslava agli incessanti conflitti interni di Dostoevskij.

Ivan frequenta un Istituto Professionale, ma già lavora – quando lo chiamano – per dare una mano nella falegnameria, quella del proprietario della casa che hanno in affitto: lui, la madre e la sorella. Degli uomini della famiglia spesso racconta: padre, nonni, zii…che sono rimasti là, in Ucraina, a seminare e raccogliere le patate, a distillare la vodka, a resistere al vento della steppa. Perché? Poiché c'è un senso atavico in quel "resistere", quasi che fosse la garanzia dell'esistere, del testimoniare il trascorrere del tempo sotto quei cieli bigi, con le auto scassate e la Polizia che si compra e si vende per cinque euro.

C'è però in Ivan un sentimento nobile che traspare nella dignità del sedersi, di versare la birra nei bicchieri, nel raccontare le storie lontane e vicine. E, man mano che il tempo passa, comincio a capire chi ho di fronte, chi veramente è il ragazzo che osservo spazzare di fronte alla falegnameria.

 
 

E' un pomeriggio d'Autunno, e mio figlio sta provando la lezione che dovrà mostrare al suo insegnante al Conservatorio: squilli di tromba e "stecche" si susseguono ordinatamente. A rompere la sequenza, però, la voce di Ivan; «No, Emi, no: qui tu fatto La naturale, no, dimenticato, bemolle in chiave, non La naturale!»

Vengo così a sapere che Ivan non conosce solo approssimativamente la musica, perché è difficile dare un simile giudizio mentre s'ascolta e si segue, contemporaneamente, lo spartito. "Perché ci vuole orecchio", direbbe Jannacci.

Così, una sera, racconta con la semplicità dei semplici che lui ha studiato violoncello. Gli chiedo quanto gli mancava, in Ucraina, per terminare gli studi.

Lui, con un'innocenza che è rara da scorgere nei ragazzi italiani appena mettono nel cassetto un "pezzo di carta", semplicemente afferma: «No, io finito, finito cinque anni di violoncello con diploma.» Punto. E che punto.

Non so cosa prevedano i piani di studio ucraini in merito, però questo ragazzo che studia meccanica al Professionale è diplomato in violoncello. E il violoncello?

 
 

Qui, glissa. Non riesco a capire bene che fine abbia fatto il violoncello…c'entra la nonna, voleva che lui studiasse lo strumento…ma di più non si riesce a sapere. Se qualcuno ha notizie di un violoncello scomparso nelle nebbie della globalizzazione, ne dia notizia, per favore.

Può darsi che, con il progredire dell'astronautica, un giorno lontano scopriranno in qualche nube cosmica dimenticata un guazzabuglio d'oggetti che, questa gente travolta da eventi non suoi, non appartenenti alla loro vita, è stata costretta ad abbandonare. Se trovassero il violoncello di Ivan, prego inviare una mail allo scrivente od ai suoi eredi.

 
 

Se c'è Ivan, però, c'è anche Samir, che è una discreta testa di c…

Perché?

Poiché Samir ha la bella abitudine di farsi prestare le cose e poi, per riaverle, bisogna cercarlo con i segugi. Per carità, non ruba mai nulla, semplicemente "si dimentica": la mia prolunga elettrica la tenne sei mesi, punta e mazzetta tre. Per fortuna c'è il fratello Youssuf, che è più serio.

Quando la pazienza termina, allora si ricorre a Youssuf, il quale allarga le braccia «Testa di m…» ruggisce in buon italiano, se lo fa ancora lo dirò a Mohammed.»

Perché Mohammed è il più vecchio dei fratelli, ed è il capofamiglia: guai se lo venisse a sapere! Sarebbero botte.

Ovviamente, per la gente del posto Samir è un "brucia", uno sul quale non fare affidamento: per quelli un po' più leghisti, diventa subito un "marocchino di merda."

Dimenticano, questa buona gente, che spesso si comportano nell'identico modo (o peggio): un familiare di mia moglie, chiese ad un cugino se poteva mettere l'automobile sotto una tettoia che il parente non utilizzava. Certo, io non la uso…

Dopo vent'anni gli presentò il conto: usucapione, adesso è mia, vai pure dall'avvocato se vuoi.

Io stesso ricordo che un amico prete mi prestò un trapano a manovella per fare un buco nel bosco, dove non c'era corrente elettrica: non sapevo come fare, dopo 12 anni, a riportarglielo. Difficile, per uno scrittore, non trovare le parole, eppure non vennero: per fortuna che era prete, e che la carità cristiana ebbe il sopravvento.

Non per questo, però, sono diventato un "italiano di merda."

 
 

Ma i ricordi vanno all'indietro, ad una sera di tanti anni fa, quando un amico allevatore venne a trovarmi portandosi appresso il suo "aiutante": la luce delle scale era spenta e, l'aiutante, era così nero che quasi non lo vidi.

Ci sedemmo e, soprappensiero, versai del whisky in tre bicchieri: all'ultimo momento mi ricordai, imbarazzato, che l'ospite poteva essere musulmano.

Fu lui stesso, in un italiano stentato, a togliermi dall'imbarazzo: «Sì, musulmano, però…» e scosse il capo sorridendo.

Se l'italiano era approssimativo, il nostro guardiano e mungitore di capre parlava correntemente inglese e francese: quando dico "correntemente" intendo sostenere che non riuscivamo a stargli dietro.

Già, perché oltre alle lingue aveva anche una laurea in Economia.

Come mai, allora, l'emigrazione?

 
 

Colpa del Presidente Carter.

La sua famiglia – spiegò – possedeva un'azienda agricola dove producevano arachidi. Subito la mente s'ingombra d'immagini, dove schiene nere e sudare zappano una terra arida e polverosa, accompagnando la fatica con antiche cantilene tribali.

E' lui stesso a spazzare la mia mente: «Avevamo due trattori, un Fiat ed un Renault, e le cose andavano bene. Io e mia sorella aiutavamo nei lavori di campagna, ma entrambi abbiamo studiato fino alla laurea.»

E poi? Dopo?

Dopo arriva Carter, che è un coltivatore estensivo d'arachidi, ed iniziano complessi "accordi" con il suo Paese: difficile capire i termini della questione, un po' per la lingua, ma soprattutto perché lui è un economista e spiega con dovizia l'argomento, usando termini tecnici che noi non conosciamo.

In buona sostanza – riusciamo a capire – il prezzo delle arachidi comincia a dimezzarsi ogni anno, per più anni: non c'è bisogno di chiedere altro per comprendere.

Giunge così a Genova – all'epoca non era necessario usare i barconi – sbarca da un mercantile e cerca lavoro: il primo ricordo che ha dell'Italia – ricorda – furono un paio di banane che acquistò in un negozio. Non conosceva ancora il valore del denaro italiano, ma dal resto che gli diedero comprese che erano costate parecchio: lui, le raccoglieva in giardino.

 
 

Qualcuno dirà che esistono anche i delinquenti: certo che esistono. Io stesso me ne ritrovai due quasi "precipitati" in casa: s'erano arrampicati lungo le tubazioni esterne del metano. Fui fortunato e loro sfortunati, giacché una sciabola a pochi centimetri dalla gola convince, mentre prendere la via della fuga costò ad uno dei due una caviglia rotta. Mi fecero quasi pena, nel vederli arrancare lungo la viuzza mentre fuggivano, con quello con la caviglia rotta che gemeva e l'altro che cercava di scrollarselo per scappar via veloce: dalla parlata, mi sembrarono albanesi. Ma l'amichetto dei giochi di mio figlio, ai giardinetti, era il figlio di un muratore albanese e mia moglie discorreva con la madre delle solite cose, che tutte le madri hanno da meditare con altre madri.

 
 

Viene allora da dire che è in pericolo la nostra cultura, la nostra religione, il nostro "essere" italiani: vorrei ricordare che nessuna cultura, non timorosa di se stessa, ha mai avuto problemi di confronto. Ne siano esempi l'India inglese, dalla quale gli indiani si liberarono, cercando però di mantenere "l'impianto" amministrativo, scolastico ed organizzativo inglese. Oppure la tradizionale emigrazione curda e turca in Germania.

 
 

Mustafà era proprio un "vu cumprà" nel senso stretto del termine: girava mercati, strade e case per vendere le solite cose: calze, magliette…

Ogni tanto passava da casa nostra: suonava e proponeva la merce. Talvolta compravamo qualcosa, altre volte no: quasi sempre si beveva un caffè assieme.

Un giorno giunse e, già sulle scale, si lamentava del Ramadan: è dura, però bisogna farlo…

Come un perfetto ignorante, lo invitai a prendere il solito caffè, alle solite quattro chiacchiere: solo dopo ricordai che non poteva prender cibo né bevande durante il giorno.

Notai che era un po' sulle spine, ma non ci feci troppo caso: in realtà, Mustafà era combattuto fra due precetti, ossia rompere l'impegno religioso oppure offendere l'ospite. Ritenne, evidentemente, che offendere l'ospite sarebbe stato più grave e confidò nella comprensione di Allah. Si sa: gli Dei sono omnicomprensivi, e dunque possono anche sorvolare su un caffè "corsaro".

 
 

Oggi, un'indagine rivela che il 45% dei ragazzi italiani non si fida degli stranieri, oppure li odia. Per conforto, un buon 40% non prova questi sentimenti.

Mi chiedo se questi ragazzi abbiano mai provato ad ascoltare i loro vicini di banco, di scuola, di bar, di piazza.

Ho avuto il privilegio di poterlo fare, di riuscire nel convincerli a farlo.

 
 

Quando, anni or sono, nella nostra scuola apparve qualche indizio di razzismo – per carità, semplici risatine di sufficienza, sussurri fra "italiani doc", marginali tentativi d'emarginazione – in accordo con il Preside decidemmo un'iniziativa "giornalistica".

Con la redazione del giornalino scolastico e della radio d'Istituto, organizzammo una serie d'interviste: i ragazzi italiani intervistarono i loro coetanei d'altre nazionalità sulla loro terra, il loro passato, le loro esperienze. Dopo, ovviamente, aver ricevuto l'assenso dai ragazzi stranieri all'intervista.

Io non feci altro che organizzare le interviste: tempi, modi, formati audio, ecc. Poi, li lasciai "sbattere".

 
 

Dopo qualche giorno, uno degli intervistatori mi fermò in corridoio e mi condusse sulla scala antincendio – il luogo dove ogni proibizionismo scolastico cede – e solo allora m'accorsi che aveva gli occhi lucidi.

«Prof, ho l'intervista ad Erika, ce l'ho qui nella chiavetta,,,»

«Bene, poi la ascoltiamo e…»

«No, prof, questo lo so, nessun problema…solo che…»

«Che cosa?»

«Solo che…ho dovuto farmi forza per non piangere mentre la intervistavo, ci sono riuscito, però…»

«Però?»

Sbottò: «Ma come si fa a rimanere indifferenti, quando senti raccontare della fame, delle giornate trascorse a cercare semi di girasole per mangiare…e poi gli scafisti, un bambino…non ho capito bene se morì durante la traversata, poi vedremo se si riuscirà a capire meglio riascoltando…e la madre che non voleva che lo gettassero in mare…» scoppiò a piangere.

Volle continuare «Come si può pensare che sia la stessa Erika con la quale andiamo in discoteca: nascosta per giorni in un uliveto nelle campagne del Salento, che si nasconde e striscia per raggiungere un vagone, poi sale sperando che la polizia non trovi lei e la famiglia… ma come si fa, come può succedere…»

 
 

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che esistano situazioni ben diverse, nelle quali è difficile comunicare: io stesso, mi trovai nella condizione di far scivolare la conversazione sulla lama di una sciabola.

Però, ascoltiamo poco, quasi niente.

Allora, mi sovviene un dubbio: forse che il nostro "non conversare" sia dovuto più al non avere niente, o poco, da raccontare?

Cosa possiamo raccontare a questa gente che è fuggita da tragedie inenarrabili, quale aspetto della nostra magnificata cultura li può attrarre? Ci sono le bellezze dell'Arte, ma non illudiamoci: sono bellezze d'altri italiani, d'altra gente, d'altri cieli. Non insozziamo il loro ricordo con gli umori delle nostre fauci.

Cosa possiamo raccontare, oggi, di noi?

 
 

Vogliamo narrare come una combriccola di schifosi lenoni e prostitute s'è accaparrata milioni – forse miliardi – di euro per dividerseli, nel nome di una poco giustificata "urgenza" negli appalti?

Che tutto deve passare nel dimenticatoio della normalità, benedetto dagli aedi di regime, dai Minzolini ai Vespa? E' questo che possiamo narrare? Oppure lasceremo difendere la nostra "cultura" ai Borghezio? Ed alla, di loro, fallace e defunta cassandra?

 
 

E la grande Europa, quella che nei suoi documenti costitutivi desiderava andar oltre la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, che fa? Non riconosce un titolo di studio ucraino soltanto perché conseguito fuori dai sacri confini? Lo nega per fare in modo che un violoncellista sia costretto a spazzare una falegnameria?

 
 

Allora, si giunge a pensare: aspettate pure trepidanti i vostri furgoni, che portano la vostra vodka ed il vostro formaggio – tanto, nessuna ragazza italiana andrà a pulire il sedere ai vecchietti – ma rimanete non-integrati, salvaguardate le vostre culture perché, al confronto della nostra, sono sacre.

 
 

Giovanni Paolo II ebbe a dire che l'Italia era ormai "terra di missione": inizio a credere che avesse ragione.

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venerdì 26 febbraio 2010

La lezione iraniana

La lezione iraniana

di Marco Tarchi - 25/02/2010

 
 

Fonte: Diorama Letterario [scheda fonte]

 
 

Come era da attendersi, le vicende iraniane continuano, a sei mesi dalla contestata rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza del paese, ad occupare la scena informativa internazionale. E ad offrire lezioni interessanti a chi cerca, seguendo i due maggiori paradigmi interpretativi, più complementari che alternativi, che ne sono stati forniti da analisti di primo piano – la "fine della storia" di Francis Fukuyama e lo "scontro delle civiltà" di Samuel Huntington – ma misurando anche gli scostamenti dai (e gli adeguamenti dei) loro canoni che le convulsioni degli eventi impongono, di cogliere e decifrare i giochi strategici per il dominio del pianeta posti in atto dopo la fine dell'era bipolare.

A Teheran e dintorni si gioca da anni una delle partite più rilevanti in questo contesto, divenuta ancora più cruciale da quando la scorribanda militare di Stati Uniti ed alleati ha destabilizzato gli equilibri nella regione circostante, annientando il potere di contenimento e interdizione dell'Iraq. Porre un freno alle capacità di influenza dell'Iran sul mondo islamico è un tema all'ordine del giorno delle cancellerie delle grandi potenze da trent'anni, cioè da quando l'ascesa al potere di Khomeini strappò la Persia dal contesto occidentale in cui si era di fatto inserita, e gli atti finalizzati a tale scopo sono stati numerosi: dall'appoggio logistico e militare fornito dagli Usa al regime di Saddam Hussein quando era in guerra con il paese guidato dagli ayatollah al rovesciamento di posizioni successivo all'invasione irachena del Kuwait e al primo conflitto del Golfo che ne conseguì, dall'intervento sovietico in Afghanistan all'assistenza statunitense alle armate mujaheddin che lo contrastavano, dal favore mostrato da Washington verso la conquista del potere talebana a Kabul sino all'apertura del contenzioso nucleare, esteso alle organizzazioni internazionali e all'Unione europea. Ogni mossa effettuata su questo scenario politico-militare si è accompagnata ad un'azione intensa su un terreno ancora più efficace per raggiungere lo scopo, quello della costruzione di un'immagine negativa del bersaglio da colpire capace di far larga presa sull'immaginario collettivo e di fare da base alla "pressione dell'opinione pubblica" che, sollecitata o inventata dai governi e dai circuiti comunicativi compiacenti verso le loro intenzioni, avrebbe prodotto le giustificazioni adeguate a qualunque iniziativa "reattiva" verso il paese che George W. Bush inserì eloquentemente, nelle ore successive agli attacchi dell'11 settembre 2001, nel famigerato Asse del Male.

Intendiamoci: che la Repubblica islamica dell'Iran ci abbia messo del suo, e non poco, per accreditare al di fuori delle proprie frontiere un'immagine non proprio idilliaca di sé, non c'è dubbio. Gli episodi sanguinosi che segnarono l'insurrezione contro lo Scià e i suoi sviluppi, i toni intransigenti dei discorsi di Khomeini e la celebre presa di ostaggi nell'ambasciata nordamericana costituirono la base di una rappresentazione che, con gli anni, non ha fatto che incupirsi. Ma è altrettanto certo che sul fronte occidentale si è fatto di tutto per andare ben oltre i dati di fatto, trasformando quell'immagine in una sinistra caricatura. Anche nel periodo di presidenza di Khatami, oggi raffigurato come un pacioso e rimpianto riformista, benché i rapporti diretti con Usa ed Europa avessero preso una piega meno ostile, nei paesi occidentali l'unica immagine dell'Iran accreditata e divulgata con ogni mezzo – dalle inchieste giornalistiche ai film e ai romanzi accuratamente selezionati e propagandati come uniche espressioni culturali del grande paese, passando per i convegni, le conferenze e le manifestazioni di protesta – era quella del paese dove tutte le libertà civili erano oppresse, le donne erano costrette contro la loro volontà a coprirsi con il lugubre chador e nessuna opposizione politica era ammessa. In questo profilo monolitico non è mai comparsa nessuna crepa: le tensioni tra esponenti delle istituzioni, i contrasti tra deputati in parlamento, la presenza di giornali dissidenti, i dibattiti culturali sono sempre stati tenuti in non cale, fintanto che un provvedimento repressivo di ispirazione politica non ha, di volta in volta, consentito di riprendere la giaculatoria polemica.

In altre parole: da quando l'Iran è passato dall'orbita statunitense a cui Reza Pahlevi lo aveva ancorato ad un campo avverso, quello dell'indipendenza nazionale, il suo destino di "paese canaglia" è stato segnato. Non ci si è mai sognati di applicargli i distinguo culturali che tante volte hanno autorizzato l'intellighenzia a passare sotto silenzio il disprezzo dei diritti politici degli oppositori in una congerie di casi distribuiti sui cinque continenti. Non si è mai indagata l'"altra faccia" del paese per capire come mai, al momento del crollo, il regime imperiale fosse stato difeso solo dalla famigerata polizia politica e da una ristretta parte delle forze armate, e attaccato o abbandonato dalla stragrande maggioranza della popolazione, che negli anni a seguire avrebbe esaltato il khomeinismo e le sue scelte, persino le più gravide di conseguenze dolorose come il dispendiosissimo scontro bellico con l'Iraq. Tutte le tornate elettorali sono state in partenza bollate come farse o mascherature di una presunta totale assenza di democrazia. Ogni atto politico dei governi di Teheran è stato liquidato con il ricorso al lessico degli insulti: fanatismo, oppressione, follia, dispotismo, e il paese è stato raffigurato come un'immensa prigione a cielo aperto, nella quale l'intera popolazione ansiosa di spezzare il giogo della tirannide è tenuta faticosamente a bada dalla violenza di pasdaran e basiji assetati di sangue.

Tanta rozzezza non è stata controproducente, non ha instillato dubbi, non ha sollecitato verifiche e tantomeno correzioni. Ancora una volta, il vantato pluralismo occidentale è stato sepolto dai bisogni della propaganda e sui giornali come sugli schermi televisivi nessuna voce discorde ha avuto diritto di farsi sentire. Al punto che l'incomprensione degli eventi è diventata una regola e ha fatto smarrire il senso della realtà. Lo ha ricordato, per la prima volta, Farian Sabahi, massima esperta di vicende iraniane in Italia in una sorprendente intervista rilasciata alla versione telematica di "Panorama" lo scorso 30 dicembre. L'autrice di Storia dell'Iran 1890-2008 (Bruno Mondadori) ha affermato senza troppi giri di parole che i presunti brogli "non sono sufficienti a spiegare la dimensione della vittoria di Ahmadinejad", che ha costruito le basi del suo successo su cose che "per la gente comune contano di più, nelle urne, del dibattito sui diritti civili caro ai riformisti […]: ha dato in questi anni l'assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, ha aumentato lo stipendio del 30% agli insegnanti, ha garantito il pagamento delle bollette agli iraniani più poveri, ha aumentato le pensioni del 50% permettendo agli anziani di arrivare a fine mese"; "ha vinto perché è entrato in sintonia con l'Iran profondo, quello di cui i giornalisti occidentali non si occupano mai". Constatazioni dalle quali la studiosa ha tratto un ragionamento che meriterebbe di giungere al grande pubblico intossicato dalla retorica sensazionalista degli inviati di quotidiani e rete televisive dei paesi sedicenti democratici: "i riformisti dell'ex premier Mousavi hanno perso perché, al di là delle loro roccaforti giovanili ed universitarie di Teheran, al di là della loro capacità di mobilitazione su Twitter e tra i ceti più dinamici della capitale, non sono riusciti a sfondare tra l'elettorato poco scolarizzato delle campagne".

Sono parole pesanti, alle quali Sabahi ha affiancato una palese critica alle distorsioni informative dei media europei e nordamericani, quando ha sostenuto che "Mousavi è stato sopravvalutato in Occidente […] non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse stato eletto. Sappiamo solo che era l'ex braccio destro di Khamenei, non proprio un innovatore, e che è di origine azera, una minoranza etnica. Inoltre sua moglie si presentava con il chador nero ai comizi persino a Teheran, dove le ragazze si limitano al foulard". Ma sono anche parole che difficilmente lasceranno traccia in coloro che dovrebbero esserne i destinatari.

Ai politici, agli intellettuali e agli operatori della comunicazione occidentali non interessa prendere cognizione di ciò che effettivamente accade oggi in Iran, o in un qualunque altro paese che in qualche misura si discosti dai parametri di accettabilità dettati dall'ideologia liberale vigente nel mondo "sviluppato". Il loro concorde intento è aggiustare gli eventi alle proprie precostituite interpretazioni, sceneggiarli, manipolarli e spettacolarizzarli secondo copioni già pronti, canovacci che basta adattare caso per caso alle esigenze della cronaca. Ciò che importa è dare quotidianamente conto della superiorità del modello occidentale e opporla agli altrui abomini, non senza sottolineare la generosità con cui i detentori del copyright di questa non più perfettibile formula politica, economica e sociale sarebbero disposto a cederlo a chi ancora non ne gode i benefici.

Data la nobiltà dello scopo, ogni sotterfugio per raggiungerlo è buono: si tratti di tacere i fatti, di distorcerli o di rinunciare ad esercitare qualunque senso critico. In questa prospettiva, il caso iraniano non è che una pedina di un gioco a spettro molto più ampio, che serve perché, sfruttandone a seconda dei momenti gli aspetti più adatti alla bisogna – il timore della costruzione di bombe atomiche che i "folli" governanti di Teheran potrebbero scagliare su Israele o, chissà mai, persino sull'Europa, oppure la repressione delle manifestazioni di piazza degli oppositori, utili a far supporre che la Repubblica islamica si stia trasformando in un vero e proprio regime totalitario, che un domani potrebbe incendiare l'intero Islam e scagliarlo contro gli infedeli in un delirio di purificazione religiosa del globo terracqueo –, si può sventolare lo spauracchio del Nemico assoluto e suggerire che solo il suo annientamento, per via militare esterna o per assimilazione alla scala di valori occidentale grazie alla presa del potere di un'opposizione più malleabile e culturalmente penetrabile, potrà assicurare alle popolazioni della parte ricca del mondo quel tranquillo godimento della loro privilegiata posizione a cui aspirano. La trama della strategia comunicativa adottata in questa occasione non fa, del resto, che replicare stereotipi con cui precedenti episodi della saga ci hanno familiarizzato. Scenario e protagonisti non cambiano. C'è un governo in carica a seguito di regolari elezioni, di cui viene contestata la regolarità sulla base del principio che, come nei film, i cattivi non possono mai battere i buoni se non ricorrendo a ignobili trucchi, e comunque alla fine devono essere svergognati e sconfitti: i messicani non possono prevalere sugli yankees neppure in una scaramuccia, i giapponesi devono essere annichilati dai Gi's, i pellerossa hanno un destino segnato di fronte alle giubbe blu dell'esercito federale. C'è una rumorosa e folta schiera di contestatori che scende in piazza per proclamarsi detentrice della vera legittimità malgrado il responso – insincero – delle urne, sforzandosi di apparire quanto più possibile in sintonia, nelle parole d'ordine, nell'abbigliamento e nei comportamenti agli standard di moda nell'agognato mondo occidentale. C'è un codice di riconoscimento dei manifestanti preventivamente stabilito e collegato ad un colore, questa volta il verde come in altre occasioni era stato l'arancione o altra tinta, che deve servire a dare a cortei e sommosse un aspetto più gioioso e a colpire l'immaginazione delle platee televisive a cui il messaggio (espresso in slogans rigorosamente vergati in lingua inglese e riportati su cartelli e striscioni) è diretto. C'è la storia tragica della vittima esemplare degli scontri, epifania della violenza dell'odiato regime, destinata ad infiammare i cuori e suscitare l'indignazione universale, trasformandosi in icona (chissà perché a Gaza non è andata così durante l'operazione "Piombo fuso". Forse con tanti assassinati c'era l'imbarazzo della scelta?). C'è il circo mediatico delle centinaia o migliaia di inviati di giornali, radio e reti televisive che devono immediatamente fornire la grancassa al movimento, giurare sulla sua spontaneità e testimoniarne la forza numerica e d'animo al cospetto della brutale ed ottusa repressione poliziesca, salvo rincarare la dose delle contumelie contro il potere se l'operatività dei giornalisti è limitata da provvedimenti d'emergenza. C'è il coro delle istituzioni internazionali, delle organizzazioni di solidarietà (ai manifestanti) e dei governi pronto ad ammonire, denunciare, deplorare, minacciare sanzioni. C'è il tam-tam di internet, che su siti e blog si premura di far arrivare sempre e solo le immagini della "parte giusta", ignorando, come gli altri mezzi di presunta informazione, le manifestazioni della controparte, che in partenza ci si assicura essere composte esclusivamente da impiegati e funzionari statali mobilitati e stipendiati all'uopo (il tempo per spedire le famose "cartoline precetto" con cui si sarebbero gonfiate le adunate oceaniche prebelliche difficilmente ci potrebbe essere). E ci sono, anche se sul momento non si vedono, le forme concrete di sostegno dei gruppi pubblici e privati interessati ad un rovesciamento della situazione politica e pronti a goderne i frutti se il tentativo andrà a buon fine. Tanta è la somiglianza delle situazioni che verrebbe da chiedersi se le vicende commentate in tv o in radio si stanno svolgendo davvero in diretta a Teheran, oppure sono state estratte dalla registrazione di fatti accaduti a Kiev o a Tbilisi qualche anno addietro.

Del resto, chi davvero siano gli artefici della protesta, ribellione o – espressione preferita – rivoluzione, a chi desidera avvalersene importa poco. Né è essenziale il loro effettivo grado di rappresentatività degli umori e delle opinioni del paese nel quale agiscono: le minoranze rumorose, come sempre, sono di gran lunga più efficaci delle maggioranze silenziose, che possono far sentire il proprio peso soltanto nelle cabine elettorali. Ciò che conta è che il movimento di contestazione esaltato dai mezzi di comunicazione di massa esprima un visibile attaccamento ai codici simbolici dell'Occidente, facendo supporre che nell'"anima profonda" del "popolo" che scende in piazza si annidi un tumultuoso desiderio di affrancarsi dal retaggio delle arretrate tradizioni in cui è stato rinchiuso e di incamminarsi lungo il luminoso sentiero al cui sbocco sta il paradiso della superiore civiltà made in Usa.

Il guaio è che a questa opera di manipolazione su scala industriale, ormai trasformata in un meccanismo che si riproduce secondo automatismi e non necessita più di alimentazione esterna, pare non esistere rimedio. I succubi dell'ideologia che la produce, convinti di abitare il migliore dei mondi possibile e alimentati a suon di benessere consumistico, non hanno la benché minima intenzione di metterla in discussione. E le sparute voci discordi sono rese inoffensive dall'estraneità ai circuiti che contano, compresse ai margini del dibattito o affogate nella babele di lingue e segni della rete telematica. Come nei vecchi fotomontaggi che facevano scomparire dalle immagini oleografiche a celebrazione dei regimi totalitari i personaggi che nel frattempo erano caduti in disgrazia, tutti i particolari suscettibili di turbare l'immagine armonica di un mondo diretto a passo spedito verso la completa occidentalizzazione sono espunti dalla scena. E per convincere i riottosi sono sempre aperte le porte del museo degli orrori, dove vengono esposte le nefandezze dei paesi "alieni", di civiltà riprovevoli che forse non meriterebbero neppure di essere chiamate tali, brutali e minacciose, ansiose di dotarsi di strumenti di distruzione di massa e ossessivamente occupate a distribuire ai disgraziati costretti a sopportarle fame, violenza ed oppressione. Un panorama straordinariamente simile a quello dei paesi "selvaggi" da conquistare che le potenze coloniali disegnavano, un tempo, quando volevano illustrare ai loro abitanti i motivi che le spingevano alle lodevole e disinteressate imprese d'oltremare.

Le epoche si succedono, i metodi si trasformano, gli obiettivi variano. Ma gli appetiti di potere continuano, come sempre, a dominare gli orizzonti dell'umanità, e a travestirsi sotto il manto dei nobili sentimenti. E smascherarli è, oggi più che mai, un'opera non meno difficile che indispensabile, per chi crede che ridurre il pianeta ad una ininterrotta serie di copie conformi dell'attuale Occidente consumista, utilitarista, egoista e spregiatore degli equilibri naturali sarebbe non un passo avanti sulla via del progresso, ma un autentico crimine.

[tratto da Diorama letterario 296]

Censura su youtube

A seguito della rimozione da parte di YouTube del filmato relativo alla fucilazione di uomini della X-Mas da parte degli americani, offriamo su gentile richiesta il nostro spazio per poter ospitare le immagini che per la crudezza sono destinate ad un pubblico adulto. Associazione Thule Italia

Il video censurato:
http://thule-italia.com/wordpress/archives/1347

I tredici martiri: Aschieri Franco, Bertoli Mauro, Calligaro Alfredo, Cancellieri Luigi, Cantelli Marino, Donnini Domenico, Menicocci Enrico, Palesse Italo, Poletti Paolo, Scarpellini Virgilio, Sebastianelli Giulio, Tapoli Timperi Mario, Tedeschi Vincenzo.

mercoledì 24 febbraio 2010

Alla faccia di chi non ci credeva.....

dal Corriere on line

 
 

L'esperimento alla University of Wisconsin-Madison

Usa: scienziato crea in laboratorio

virus dell'influenza-killer

Yoshihiro Kawaoka ha realizzato un ibrido derivato dal riassortimento genetico del virus dell'aviaria e di quello di un normale virus influenzale stagionale

Yoshihiro Kawaoka ha realizzato un ibrido derivato dal riassortimento genetico del virus dell'aviaria e di quello di un normale virus influenzale stagionale

 

 
 

MILANO - È la dimostrazione che la trama di innumerevoli film e romanzi non era poi così campata per aria. Ma che il pericolo generato dal gruppo terroristico che si impossessa di un'arma biologica è qualcosa di plausibile. Sono infatti stati creati in provetta virus dell'influenza aviaria «cattivissimi» e molto bravi a trasmettersi e quindi con tutte le carte in regola per divenire pandemici (anche se ovviamente rimarranno confinati in laboratorio): sono nati dal riassortimento genetico (cioè dal miscuglio di geni di due organismi diversi) di un normalissimo virus dell'influenza stagionale (H3N2) e del virus dell'aviaria H5N1.

IL VIRUS - Lo sviluppo di questi ceppi virali ibridi altamente patogeni e contagiosi si deve a un super-esperto di influenza e pandemia, Yoshihiro Kawaoka, virologo della University of Wisconsin-Madison, con l'intento di dimostrare che lo scambio di geni tra un normale e poco pericoloso virus dell'influenza e il virus dell'aviaria può veramente produrre un«influenza killer». Pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, lo studio suona quindi come un avvertimento: l'influenza suina (H1N1) ci ha fatto dimenticare l'aviaria, ma invece una pandemia potrebbe arrivare proprio dall'aviaria, se H5N1 imparasse a trasmettersi bene agli uomini. Il virus dell'aviaria H5N1 si è diffuso nel mondo attraverso stormi di uccelli. Non è sfociato in una pandemia perchè H5N1 non è abbastanza abile nel contagiare gli esseri umani quindi la sua efficienza di trasmissione è bassa. Ma da sempre i virologi dicono che un virus come H5N1 potrebbe ricombinarsi con un normale virus dell'influenza stagionale e formare un ibrido molto nocivo e in grado di diffondersi rapidamente.

Redazione online

23 febbraio 2010

Sorvegliare e punire: dall'astrazione della filosofia alla pratica quotidianità. Ma talvolta la tecnologia si ribella al potere.

 
 

Sorvegliare e punire: dall'astrazione della filosofia alla pratica quotidianità. Ma talvolta la tecnologia si ribella al potere.

[ZEUS News - www.zeusnews.com - 23-02-2010]

Il proliferare delle videocamere di sorveglianza viene da molti percepito come una violazione dei diritti fondamentali dell'individuo, maggiore e più invasiva di quella derivante da una possibile violenza fisica esercitata nei confronti delle persone e delle cose.

La conseguenza è che non sembra lecito spiare persone e comportamenti violandone costantemente la privacy, in attesa di un possibile (e spesso improbabile) fatto criminoso che la videosorveglianza non può di regola impedire ma forse sarà utilizzabile per le indagini e quale prova a carico in sede giudiziaria.

Il fatto è che le telecamere di sorveglianza si sono evolute nel tempo e non solo a vantaggio della risoluzione; infatti possono essere ampiamente brandeggiate in automatico o dalla centrale operativa e alcuni modelli sono sicuramente in grado di trasmettere suoni e rumori, compresa la voce umana.

Sempre più spesso racchiuse nei cosiddetti "lampioncini", rendono impossibile far capire ai passanti se e cosa riprendono; e, cosa ancor più grave, nessuno sa bene che fine facciano le riprese, a parte le generiche assicurazioni dei responsabili della sicurezza dei dati.

Nasce perciò, tra i consensi dei cittadini in genere e degli utenti della strada in particolare, il "Progetto Anopticon" su Tramaci, un apposito sito web che pubblicizza con il concorso di entusiasti volontari l'esatto posizionamento della famigerate telecamere.

Il gestore del sito, veneziano, preferisce mantenere l'anonimato "per timore di ritorsioni da parte delle autorità"; ma a giudicare dalla realizzazione e dai contenuti tutt'altro che amatoriali, se lui ci mette il manico sicuramente e senza nulla togliergli ci sarà qualcuno che gira la manovella.

Certo, nulla di illegale; anzi, pare che l'iniziativa goda perfino dell'approvazione del Garante, forse ben contento di ricevere un'assistenza operativa che va a colpire tutta un'area che di fatto sino ad oggi è rimasta sorda ai pareri espressi e anche alle istruzioni emanate in materia di privacy.

Per ora il progetto è attivo in cinque città (Venezia, Pisa, Padova, Foggia, Urbino) e in un paesino (Solero) in provincia di Alessandria; ma Etno, nickname del gestore del sito, confida nella collaborazione del popolo del web.

Il nome dell'iniziativa richiama per opposizione il Panopticon, il carcere ideato ai tempi della Rivoluzione Francese da Jeremy Bentham, giurista e filosofo che ipotizzava, per mezzo della continua sorveglianza, senza che i sorvegliati potessero sapere se e quando fossero sorvegliati, un nuovo "modo per ottenere potere mentale sulla mente."

È dubbio che la quasi certezza di essere scoperti induca qualcuno a non commettere infrazioni; ma evidentemente la teoria del controllo globale sugli atti delle persone fa sperare in un controllo anche dei pensieri. Da qui il perenne ricorso, dalla notte dei tempi, allo spionaggio e alla delazione da parte del potere costituito.

Ma finalmente pare ci sia un correttivo: battere la tecnica con la tecnica medesima potrebbe essere la soluzione pratica sperata da molti e vanamente inseguita sino a ieri.

 
 

 
 

Quella grande ipocrisia sulle cause e gli scopi della Seconda guerra mondiale

fiamma : Messaggio: Quella grande ipocrisia sulle cause e gli scopi della Seconda guerra mondiale

martedì 23 febbraio 2010

SCUSATE, MA NON CAPISCO……


SCUSATE, MA NON CAPISCO……


Oppure capisco troppo bene. Vediamo un po'.
La Corte dei Conti, che è un po' il grillo parlante delle note spese d'Italia, ci ha sbandierato due dati, freschi freschi, ma orripilanti.
Il primo: la corruzione nell'ultimo anno è aumentata del 229 %; il secondo: la concussione è aumentata del 153%. Ricordo che corruzione si ha quando un soggetto (singolo o societario) dà soldi alla pubblica amministrazione (in senso lato, politici compresi) per avere un favore od anche un semplice diritto. Si ha concussione invece quando è la pubblica amministrazione che pretende soldi o benefici in genere per dare al cittadino quanto dovuto, per favorirlo in determinate situazioni, per evitargli sanzioni, controlli, accertamenti……
Ricordo altresì che la cosiddetta stagione di "mani pulite" cominciò diciotto anni or sono: di tempo per sistemare le cose ne hanno avuto più che a sufficienza.
Ed invece………
Come non capisco la faccenda degli arresti in meridione. Con cadenza settimanale i media ci danno la notizia dell'arresto di uno fra i cento latitanti più pericolosi. E non passa settimana senza che i media non annuncino una massiccia operazione delle Forze dell'Ordine che porta a "sgominare" questa o quella organizzazione di malavita organizzata nel sud. Così come ripetutamente il Presidente del Consiglio, il Ministro degli Interni o il Capo della Polizia si congratulano con le forze dell'ordine per i brillanti risultati, per il numero degli arrestati, per gli ingenti patrimoni sequestrati (attenzione! Sequestrato non significa di per ciò stesso confiscato. C'è una bella differenza!). Così come Sua Emittenza non tralascia occasione per sottolineare come nessuno come il suo governo abbia operato contro la/le mafia/e.
Strano.
Mi sembra uno di quei film hollywoodiani nei quali tre o quattro eroi yankee fanno fuori qualche centinaio di pellerossa, qualche migliaio di biechi nazisti, decine di migliaia di "musi gialli" giapponesi. Stando a semplici calcoli statistici, secondo la matematica dei cineasti yankee, la II Guerra mondiale avrebbe dovuto durare al massimo un anno. Per scomparsa dei nemici, liquidati dai rambo a stelle e strisce.
Così le mafie dovrebbero essere state debellate da tempo, al ritmo degli annunci,
Ed invece………
Ed invece le mafie, le 'ndranghete, le camorre prosperano e fioriscono, fino a diventare la prima voce di fatturato nello Stivale. Questo vuol dire o che le si è affrontate nel modo sbagliato, perdente; oppure che non è possibile debellarle in queste condizioni, perché sono la società del sud . Piacevolezze della democrazia e del controllo dei voti. Il Prefetto Mori aveva le spalle coperte da Mussolini, e della mafia fece piazza pulita. Oggi invece……
Ma non basta. In Germania la crisi mondiale si è affacciata, come dappertutto. E la Volkswagen (la Macchina del Popolo, come la volle Hitler) si è messa in giro ad un tavolo col sindacato e ha raggiunto un accordo in questo senso: l'Azienda si impegna a mantenere in organico i 100.000 occupati. I dipendenti si impegnano a sottoporsi a dei test di produttività. Personalmente mi sembra equo, socialmente avanzato e soprattutto intelligente.
La FIAT invece promette e dà cassa integrazione a tutti (compresa una settimana alla Ferrari, ma questo i media non lo hanno detto. Lesa maestà), e dichiara irreversibile la chiusura di Termini Imerese: la Lancia Ypsilon si farà in Polonia, con un risparmio di circa 1000 euro a unità. In compenso gli azionisti della FIAT si assegnano un congruo, cospicuo, grasso dividendo. E assegnano all'italo – canadese Marchionne un bonus, un regalino di due milioni di azioni FIAT.
Come sempre, come tutti: la savoiarda casa torino-giudaica privatizza gli utili, e scarica su gli Italiani (in questo caso ai Siciliani due volte) le perdite, gli errori, i problemi.
Non capisco: corruzione, concussione, malavita organizzata, FIAT……
Signora Maerkel, le spiacerebbe invaderci una volta ancora e venire a sistemare le cose? Non per molto: in cinque o sei anni riuscireste a spazzar via la casta, tutti gli alti dirigenti degli uffici pubblici, le varie mafie e buona parte dell'inutile burocrazia.
Poi, dopo la pulizia (fatta alla tedesca, però!), gentilmente potreste riprendere a venire a far le vacanze d'estate. Per favore, Signora Maerkel!…….


Fabrizio Belloni

Oltre la destra e la sinistra


Oltre la destra e la sinistra

Per la Nazione

Caro Mazzanti,
   Siamo nel 2010. Il mondo del nostro tempo è un mondo dominato dall'ingiustizia e dall'ipocrisia, disordinato e caotico,  reso tale dal liberismo, quello di destra e quello di sinistra. Distinguere oggi una destra e una sinistra è come dire se stare con la montagna o con la palude dei tempi della rivoluzione giacobina. Non ha assolutamente senso. Più correttamente bisogna dire che oggi la destra è rappresentata da Berlusconi e dalla sua lobbie del malaffare corrente e la sinistra dal malaffare pregresso. Tutti liberali, tutti corrotti, tutti parassiti e sanguisuga del nostro popolo. Oggi non di destra dobbiamo parlare, ma di NAZIONE. E' l'unica cosa che ci interessa perchè è la NAZIONE che dobbiamo ricostruire. Qualcuno, se ben ricordi,  ce lo ha insegnato. Noi vogliamo rivolgerci a tutto il popolo italiano, non solo ad una parte. Vogliamo rappresentare tutti e a tutti dobbiamo rivolgerci. La mia non  è una posizione ideologica sulla quale discutiamo da tempo. E' la realtà per come viene percepita dalla gente comune che ha schifo per la politica e continua a votare solo per abitudine.

    Caro Mazzanti, devo dirti che più che inseguire i pagliacci del circo berlusconiano, noi dobbiamo mirare  a conquistare le simpatie degli operai di Termini Imerese, dell'Alcoa, dei giovani disoccupati e senza futuro, della popolazione dell'Aquila tradita una, due, infinite volte, l'attenzione della gente che soffre per il malfunzionamento e i guasti della sanità pubblica, che va in ospedale e non trova posto o deve aspettare mesi per una visita medica, l'attenzione degli sfrattati, di chi non riesce a comprare una casa e di chi tocca con mano ogni giorno l'assenza dello Stato, ridotto ad una girandola di maniaci, corrotti, pidocchi e vermi di una struttura in decomposizione. Di Gasparri, Fini, Berlusconi, anali e falliti vari non ce ne importa un fico secco. Se potessimo, li manderemmo tutti  a spaccare le pietre come meritano, dato che, oltre che dello scardinamento del paese con la loro incompetenza, sono responsabili di avere svenduto l'Italia alla cricca USA/Israel, di averla ridotta ad una portaerei americana pronta per ogni genere di aggressione.
   Noi siano eredi di una tradizione nazionale, sociale e rivoluzionaria e ci interessa fare esplodere le infinite mine sociali di cui è disseminato il nostro paese. Per questo dobbiamo organizzare una forza politica fiera e determinata, votata ad una opposizione totale, fatta da uomini senza prezzo.  Qui è in gioco l'avvenire dell'Italia e contendere, all'insegna dei giochetti e dei trucchetti liberaldemocratici, qualche briciola a una cricca di cialtroni traditori, non ci interessa affatto. Noi vogliamo scrivere la storia, acquisire un posticino ben pagato succhiando magari mammelle avvelenate è una cosa che, al solo pensiero,  ci provoca ribrezzo. E allora caro Mazzanti è avanti che dobbiamo guardare, Fiuggi è  lontana, il 1995 è passato da un pezzo e  presto, grazie a Dio, passerà anche Berlusconi.
   Il nostro Movimento lo dobbiamo costruire con energie nuove e pulite, non con mestieranti e vecchi marpioni della politica. Questo è che la gente perbene si aspetta da noi, non altro.

Nicola Cospito

----- Original Message -----
From:
Alessandro
Pucci

Sent: Sunday, February 21, 2010 1:43 PM
Subject: Commento Politico di Massimiliano Mazzanti - Esecutivo Naz. Area Destra
Commento Politico di Massimiliano Mazzanti - Esecutivo Naz. Area Destra



Silvio Berlusconi è insoddisfatto della struttura del PdL? Il Cavaliere potrebbe in qualche modo tornare sui suoi passi e tornare a dividere le sorti di Forza Italia da quelle di Alleanza nazionale? In verità, è difficile immaginare uno scenario del genere, ma, se la PdL dovesse in qualche modo implodere, quali opportunità e quali rischi correrebbe, la Destra politica

italiana?Il rischio maggiore, è certamente  quello di una rinascita di Alleanza nazionale, magari senza Gianfranco Fini e guidata da un Maurizio Gasparri o un Gianni Alemanno. Una tale formazione, potentemente organizzata col vantaggio di una presenza al governo e diffusa nelle istituzioni sparse in tutto il territorio nazionale, potrebbe avere capacità di attrazione tra la militanza e l'elettorato che - stante le persistenti divisioni e spaccature tra le altre sigle – continuano a considerare "di destra" quella classe dirigente e il gruppo a cui appartiene.
Di contro, una rinnovata concorrenza tra FI e An potrebbe anche aiutare la crescita dei movimenti di destra o, meglio ancora, di un partito unico della Destra che fosse in grado di esprimere una posizione politica e un programma spendibili per il governo del Paese. Anzi, una tale formazione – vista tatticamente, nel breve e medio periodo, come opportunità di indebolire gli ex-An - potrebbe trovare in FI anche una sponda interessante, oltre che interessata. L'agitarsi di problematiche di tale natura nella PdL, poi, restringe e di molto le tempistiche concesse alla Consulta per l'unità dell'area costituita da AreaDestra per raggiungere i risultati sperati. Fatta salva la regola che afferma come in politica nulla sia mai certo e definitivo, è di tutta evidenza come, perdurando le divisioni nella Destra non allineata al PdL, un'eventuale concorrenza sul territorio con una "destra già al governo" vedrebbe tutti gli altri alquanto svantaggiati.
Si creerebbe, da un certo punto di vista, la situazione che An ha vissuto per anni nei territori della Lega, dominati facilmente da un partito che, a seconda dei casi, poteva giocare la carta del partito di piazza o quella del partito di governo. La speranza, da questo punto di vista, è che nell'eventuale "costola destra" della PdL resti proprio Gianfranco Fini, con le sue per lo meno bizzarre posizioni politiche che aiuterebbero certamente la disaffezione degli elettori e dei militanti da quel gruppo. E, comunque, se Fini decidesse di costruire qualcosa in splendida solitudine, la "costola destra" del PdL troverebbe in lui un ulteriore competitore che permetterebbe a una nuova Destra di far risaltare la sua ritrovata coerenza e unità. Infine, questa situazione suggerirebbe di trovare quanto prima una tattica e una strategia di comportamento verso i berlusconiana, improntate alla massima pragmaticità, nell'intento di trarre dal rapporto con la"costola forzista" dell'attuale PdL i massimi vantaggi possibili, in termini di visibilità e agibilità politica.
Ovviamente, però, tutto questo discorso dovrebbe essere comunque accompagnato da un'intensificazione degli sforzi e delle energie organizzative e miltanti, in modo da estendere e rafforzare in ogni parte del Paese la cinghia di trasmissione delle idee e dei progetti della Destra politica italiana. Massimiliano Mazzantimazzanti@areadestra.it

lunedì 22 febbraio 2010

Il vero volto dell'immigrazione


 Il vero volto dell'immigrazione
Marcello Pamio - 1/08/2005


Fare attenzione alle date...


10 aprile 1981
La legge 158 ratifica la convenzione nr. 143 del 1975 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro dal titolo: «Sulle migrazioni in condizioni
abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti»


30 dicembre 1986
Legge nr. 943 che garantiva: «A tutti i lavoratori extracomunitari parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani»


10 agosto 1989 - Tratto dal quotidiano "Alto Adige"
«Si calcola che nei prossimi anni, 30-40 milioni di africani verranno in Europa, e i governi centrali, hanno affidato a Italia, Spagna e Grecia il
peso maggiore. Sembra che l'Italia, nella spartizione internazionale, debba farsi carico dell'immigrazione senegalese, e si stima in 5 milioni la
dimensione numerica»


9 novembre 1989 - Tratto dal quotidiano "Il Giornale"
Titolo: «L'Italia deve affrontare la mina vagante degli immigrati di colore». Entro 20 anni gli immigrati dovrebbero essere 5 o 6 milioni!


19 gennaio 1990 - Tratto dal quotidiano "Il Corriere della Sera"
Titolo: «L'Italia impara a convivere con Maometto». «L'Italia sta diventando la nuova frontiera dell'Islam»


28 febbraio 1990
La legge nr. 39 firmata da Claudio Martelli apre definitivamente le porte all'immigrazione.


Legge Martelli
Il 28 febbraio del 1990 Claudio Martelli firma la legge nr. 39. Una legge rivoluzionaria!
- L'articolo 13 demolisce tutte le norme del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (18 giugno 1931) in materia di controllo sugli stranieri,
rende l'espulsione estremamente difficile, consentendo perfino il ricorso ai tribunali amministrativi.
- L'articolo 9, comma 2 dispone che l'extracomunitario privo di documenti, possa "regolarizzare" la sua posizione sulla base di una attestazione della
sua identità resa da due persone incensurate.


Articolo 9 - Comma 2. Gli interessati sono tenuti a presentarsi agli appositi uffici delle questure o dei commissariati di pubblica sicurezza
territorialmente competenti, muniti di passaporto o di altro documento equipollente o, in mancanza, di dichiarazione resa al comune di dimora
abituale dall'interessato e della contestuale attestazione dell'identità personale dello straniero, resa da due persone incensurate, aventi la
cittadinanza italiana ovvero appartenenti allo stesso Stato dell'interessato o, se apolide, allo Stato di ultima residenza abituale dell'interessato e
regolarmente soggiornanti in Italia da almeno un anno.


- L'articolo 10 prevede la concessione di licenze di commercio agli immigrati a condizioni agevolate rispetto a quelle richieste per gli
italiani


Cui Prodest?
Rileggendo con attenzione le date, si evince chiaramente che fin dagli anni '80 sono state votate leggi permissive ad hoc - in merito all'immigrazione -
che avrebbero pian piano portato alla situazione odierna. Semplice coincidenza o fredda programmazione?
E poi, come formulare previsioni del genere se si trattava di un fenomeno spontaneo?
Gli articoli pubblicati dai giornali nazionali non lasciano spazio a dubbi: qualcuno era a conoscenza per tempo dell'"invasione" clandestina che ci
sarebbe stata. Perché allora non sono state messe in atto strategie politico-economiche per impedirla?
Chi ha interesse che milioni di poveri disperati si riversassero nelle città europee creando instabilità sociale? E soprattutto chi ha il potere di
attuare un simile e perverso programma?


La longa mano dell'Alta Finanza Internazionale
Tutti i paesi del Terzo Mondo sono soffocati dai debiti: è un dato di fatto! Ma debito nei confronti di chi? Ovviamente delle grandi istituzioni bancarie
occidentali, come per esempio il Fondo Monetario Internazionale, per dirne uno.
Questo Fondo, nato a Bretton Woods (USA) nel 1944 con lo scopo ufficiale di favorire lo sviluppo dei paesi poveri, si è rivelato nel corso degli anni
invece per quello che realmente è: lo strumento principe nelle mani della Sinarchia[1] per indebitare sempre più i paesi che ne chiedono l'aiuto e/o
che ne accettano la sottoscrizione. Il tutto per avere il controllo globale.
Quando infatti uno stato o un paese non riesce a pagare i propri debiti alle banche, interviene immediatamente il FMI (per salvare le banche ovviamente),
il quale costringe i governanti, siano essi dittatori o meno, ad una politica basata su privatizzazioni, riduzioni degli sprechi (sanità,istruzione, terziario, ecc.) e svalutazione monetaria (per favorire le esportazioni di noi occidentali).  Tali politiche finiscono per indebitare sempre più lo stato o il paese. Chi entra nel Fondo Monetario, difficilmente
ne esce.
Le conseguenze finali di queste operazioni di strozzinaggio legalizzato sono, nei paesi industrializzati: inflazione, disoccupazione, crisi
economiche; mentre nei paesi più degradati: fame, guerre ed.emigrazione!


Conclusioni
L'immigrazione clandestina dai paesi africani è per tanto la conseguenza di politiche economiche e finanziarie mafiose da parte degli organi
sopranazionali (ONU, FMI, WTO, Banca Mondiale, ecc.), ma anche la conseguenza di politiche colonialistiche europee (vedi Inghilterra, Francia,
Belgio, Olanda, Italia, ecc.) che hanno privato i cittadini delle risorse primarie (l'Africa avrebbe tutto: oro, diamanti, petrolio, rame, ecc.)
lasciando il continente devastato e impoverito.
Detto questo però si può affermare che l'immigrazione è stata agevolata e assolutamente non impedita perché funzionale! Ma funzionale per chi?
- A mafia e malavita organizzata che vedono nell'economica manovalanza extracomunitaria una manna dal cielo: sfruttamento della prostituzione,
spaccio di droga, mercato di organi, killer usa e getta, ecc.
- Alle associazioni caritatevoli che ricevono proprio per l'immigrazione
fondi e sovvenzioni dal governo (voci di corridoio dicono che un noto gruppo italiano dedito alla carità, "ordina" per telefono una imbarcazione o un
canotto pieni di disperati, quando ha bisogno di quattrini.). Sono solo
voci, ovviamente!
- Per ultimo, ma non per importanza, l'immigrazione clandestina è funzionale a quei personaggi che vogliono fomentare una destabilizzazione della società per meglio controllarne le masse. Mi riferisco alla massoneria deviata e alle lobbies di potere!
E' risaputo che quanto più una società è tenuta sotto una campana costante di paura che viene alimentata quotidianamente da violenze gratuite,
terrorismo, sciacallaggio, rapine, stupri, ecc., tanto più le persone che appartengono a questa società sono manipolabili e controllabili.
Il terrorismo islamico, il Male per antonomasia, in tutto questo s'inserisce alla perfezione.
Il panico che i kamikaze e le loro bombe stanno veicolando - grazie ai media compiacenti - viene sfruttato dai medesimi personaggi per far passare leggi
restrittive sempre più severe, guarda caso, nei confronti delle libertà civili delle persone normali. Queste leggi mirate, sono leggi che
limiteranno le nostre libertà o quelle dei veri terroristi?
Anche in questo caso è applicabile, come sempre, la legge aurea del controllo: Problema - Reazione - Soluzione.
Prima hanno creato il Problema: apertura delle frontiere, leggi e decreti che favorivano l'immigrazione, anche clandestina.
La Reazione è sotto gli occhi e le orecchie di tutti: basta chiedere in giro cosa pensa la gente dei marocchini, islamici, Vu comprà, albanesi, della
droga e della prostituzione, ecc. Per non parlare dei kamikaze. La Soluzione per tutto questo? Semplice: telecamere ovunque, controllo
totale di internet, della posta elettronica, dei messaggi SMS, delle telefonate, dei fax, dei vostri soldi. Prelievo coatto (cioè con la forza)
della saliva (se siete onesti di cosa vi preoccupate?) che sarà archiviata nella centrale mondiale del DNA a Bruxelles. Fermo di polizia fino a 24 ore
senza avvocato, maggiori poteri all'esercito, ecc. ecc.


Avete capito dove vogliono arrivare?

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[1] Sinarchia: dal greco Syn (assieme) e Arché (comando) s'intendono quei
gruppi elitari che controllano il mondo
 
www.disinformazione.it

domenica 21 febbraio 2010

Peter ascolta il principe al Festival di Sanremo e ....


http://stgrunk.spaces.live.com/blog/cns!60586ACA0920C73F!786.entry



A lezione dal Mossad


A lezione dal Mossad
di Giulietto Chiesa - 20/02/2010


Fonte: giuliettochiesa


Quante volte, discutendo dell'11 settembre, mi sono sentito rivolgere domande sul funzionamento dei servizi segreti e sulla loro possibile connessione con attentati terroristici. Ogni volta è difficile spiegare a pubblici inesperti come funzionano le cose. Non ne capiscono un acca nemmeno molti giornalisti.
I quali, infatti, da anni corrono dietro ad Al Qaeda, che è la sigla, il logo, che non ha dietro un bel niente se non le capacità inventive della CIA, del Mossad e dell'MI-5.


Non ne capisce molto nemmeno quel degno e ammirevole intellettuale critico che si chiama Noam Chomsky, figuriamoci. Per questo scrivo questa postilla alle istruttive rivelazioni che emergono dallo scandalo dell'assassinio, in Dubai, di Mahmoud Al-Mabhouh, uno dei principali dirigenti dell'ala militare di Hamas. In scena, ovviamente, il Mossad, ma la firma non la si troverà mai.


Gl'imbecilli che continuano a pensare che i complotti non esistono, non possono ovviamente capire un mondo dove il complotto è diventato la regola generale, inclusa la finanza e l'economia. Ma basta dare un'occhiata nel mucchio delle cose che si vedono, per capire come funzionano queste operazioni. Lasciamo stare i passaporti veri, rubati, con le foto false. A parte il fatto che il trucco ricorda da vicino quello che venne usato per rivelare le identità dei 19 terroristi presunti dell'11 settembre: questo è l'abc delle spie. Ma guarda invece chi ha partecipato all'operazione in Dubai.


Nota 1 – Il Mossad è imbottito di agenti arabi. Così come di ogni altra nazionalità immaginabile, in ogni scenario. Ma questo è solo il primo strato. Ce ne sono molti altri. Per esempio nelle indagini in Dubai sono incappati due ex funzionari della polizia politica palestinese (Ahmad Hasnain e Awar Shekhaiber). Nota l'"ex". Lo erano. Adesso sono businessmen in Giordania. Si fa sempre così. E' la forma di outsourcing dei servizi segreti. Comunque sappiamo che il Mossad ha suoi uomini direttamente nei gangli vitali dell'Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen. La quale è interamente al soldo della CIA. Si chiama infiltrazione. E poi andate a chiede ad Hamas di fare pace con Al Fatah: se vi ridono in faccia è perchè sono gentili.


Nota 2 - Ma non penserete mica che il Mossad abbia le sue mani così corte da fermarsi agli amici degli amici! Infatti ha infiltrati anche dentro Hamas. E' finito in carcere, in Siria, uno dei più vicini consiglieri di Khaled Mashaal, il capo di Hamas. L'accusa è di essere stato la talpa per liquidare Mahmoud Al Mabhouh.


Nota 3 (storica) – A parte lo stranissimo "anarchico" Gianfranco Bertoli, che tirò la bomba contro la folla che stazionava attorno alla Questura di Milano  dopo il passaggio dell'allora premier mariano Rumor ("anarchico" proveniente da un kibbuz israeliano, ex agente - per ammissione esplicita di Niccolò Pollari – prima del SIFAR e poi del SID), torna alla mente la rivelazione che Giovanni Galloni, stretto collaboratore di Aldo Moro, fece dopo l'assassinio dello statista democristiano. Sono le parole pronunciate da Aldo Moro in persona prima di essere rapito e ucciso: "La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti, sia americani che israeliani, hanno infiltrati nelle Brigate Rosse, ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati".


Lo ricordo perchè tutti (in particolare i più giovani) si guardino dalle sciocchezze che circolano e non mi chiedano più se io penso che CIA e Mossad avessero infiltrati nei gruppi terroristici che parteciparono all'11 settembre. Certo che li avevano! E che li hanno!  Dunque ogni volta che un attentato produce morte e paura ricordatevelo sempre: loro come minimo sapevano, come massimo hanno partecipato. La percentuale azionaria varia da caso a caso.

lunedì 15 febbraio 2010

Vallanzasca

di Massimo Fini

L'11 gennaio comincerà la lavorazione del film

su Renato Vallanzasca prodotto dalla Twenty

Century Fox, con la regia di Michele Placido e

Kim Rossi Stuart nella parte di colui che fu "il

bel Renè". La circostanza mi offre lo spunto per

scrivere una "lettera aperta" al Presidente della

Repubblica per sollecitare una grazia che "il

bandito della Comasina" ha già chiesto qualche

anno fa ma che fu sdegnosamente respinta

dall'allora ministro della Giustizia Roberto

Castelli. Al Presidente della Repubblica Italiana

onorevole Giorgio Napolitano.


 

Signor Presidente,

mi permetto di rivolgermi a Lei con questa

lettera aperta per chiederLe di vagliare la

possibilità di concedere la grazia al cittadino

italiano Renato Vallanzasca, nato a Milano il

4/5/1950, attualmente detenuto nel carcere di

Opera. Il Vallanzasca è stato condannato a due

ergastoli e ad altri 90 anni di reclusione per una

serie di furti, di rapine, di sequestri di persona e

anche di omicidi di agenti di polizia consumati

però sempre a viso aperto in scontri a fuoco,

potendo egli stesso essere ucciso, e non in vili

agguati sotto casa mandando magari altri a fare il

lavoro sporco e pericoloso. Il Vallanzasca non

solo ha sempre lealmente ammesso le proprie

colpe, ma si è anche addossato in più occasioni

(rapine di Milano 2, di Pantigliate, di Seggiano,

di viale Corsica) le responsabilità di delitti per i

quali erano stati incriminati degli innocenti,

dando così un suo contributo, non marginale, alla

giustizia. Del pari non ha mai ceduto al

malvezzo, oggi così diffuso anche fra autorevoli

e autorevolissimi rappresentanti delle istituzioni,

di accusare polizia e Magistratura di

"complotto", non si è messo, com'è diventata

anch'essa deplorevole abitudine, a cercare prove

contro i suoi giudici, non ha mai lamentato

torture psicologiche e fisiche per il solo fatto di

essere in carcere, né si è messo a fare il pianto

greco alla scoperta che una cella non è un salotto.

Si è insomma sempre comportato con dignità,

dando a vedere di essere consapevole che aveva

un conto da pagare alla giustizia e alla

collettività. Eppure la carcerazione di Renato

Vallanzasca è stata durissima. Ha passato undici

anni in isolamento. Undici anni, signor

Presidente, quando ai detenuti di Tangentopoli o

similari sono bastati quattro o cinque giorni di

questo regime per gridare all'infamia, invocare

Amnesty International e per ricattare la

collettività minacciando di togliersi la vita. A

differenza di altri detenuti che hanno potuto fare

della loro cella una redazione di giornale o un set

televisivo, a Vallanzasca è stato negato anche il

computer (concesso, mi pare, solo un anno fa) e

poiché non ha santi in paradiso ha subito più

volte botte e pestaggi, mentre i medici che lo

avevano in cura venivano intimiditi perché nulla

trapelasse. Solo una volta, dopo vent'anni di

carcere di questo tipo, all'indomani di un

pestaggio particolarmente brutale, il Vallanzasca,

poiché nessuno si levava a difendere i suoi diritti,

ha scritto una lettera di protesta. Ma nemmeno in

questa occasione si è atteggiato a vittima e a un

giornalista che gli chiedeva se fosse stato

torturato ha risposto: «Beh, adesso non

esageriamo». Risposta che fa il paio con quella

data, dal famoso balconcino, il giorno della sua

prima cattura, alla canea sociologicizzante dei

giornalisti che, in clima immediatamente post

Sessantotto di giustificazionismi universali, gli

chiedevano se non si ritenesse una vittima della

società: «Non diciamo cazzate» (e già solo per

questo, ai miei occhi, meriterebbe di essere

liberato). Una lezione per allora, ma anche per

oggi in un'epoca di perdonismi, di "buonismo",

di indulti, di amnistie mascherate, di prescrizioni

altrettanto mascherate, dove nessuno accetta di

assumersi le proprie responsabilità - che sono

sempre altrove, nella famiglia, nella società, nel

"così fan tutti", nel «perché proprio io?» - come

dimostra anche la penosa vicenda di

Tangentopoli i cui protagonisti hanno fatto di

tutto per mischiare le carte trasformandosi in

martiri della libertà, in giudici dei loro giudici e

ad alcuni dei quali, condannati in via definitiva

per aver taglieggiato e concusso, vengono ora

intitolate vie, piazze e giardini; e quell'altra

incresciosa storia, possibile solo in Italia, di un

detenuto, condannato per l'assassinio di un

commissario di polizia, che ci fa ogni giorno la

morale dalle pagine dei più importanti giornali

nazionali. Come Le dicevo, signor Presidente, il

Vallanzasca ha una sua etica, sia pur malavitosa.

La ragazza Trapani la trattò con garbo e quando

le gazzette cominciarono a insinuare che fra lui e

la giovane c'era una "love story" replicò

seccamente: «Sono tutte balle inventate dai

giornalisti». Laddove, come Lei, signor

Presidente, che è uomo di mondo, ben sa, nella

società delle cosiddette persone perbene a

domande del genere s'è soliti rispondere con

sorrisetti d'intesa e frasi ambigue del tipo: «Non

fatemi parlare, sono un gentiluomo». Inoltre, pur

essendo nella posizione migliore per farlo, il

Vallanzasca si è sempre rifiutato di entrare nel

mercato della droga e a questo proposito ha

dichiarato: «Non giudico né chi si fa né chi

spaccia. Non sono cose che mi riguardano. Ma

con la droga non voglio avere nulla a che fare».

Infine, ed è la circostanza più importante, a

differenza di altri detenuti, per la concessione

della cui grazia, peraltro non richiesta

dall'interessato, si levano infinite voci ben più

autorevoli della mia, e che hanno scontato una

parte minima della loro pena, Renato Vallanzasca

è in galera da più di trent'anni. Ha peccato molto,

è vero, ma mi pare di poter dire che ha espiato

anche molto, dimostrando oltretutto, a differenza

di altri, di riconoscere la potestà dello Stato e il

suo diritto a giudicarlo e punirlo. È un bandito

d'altri tempi, di stampo ottocentesco, quando la

malavita aveva regole, dignità e codici d'onore ed

era lo specchio rovesciato e malato di una società

liberale dove regole e dignità e onore avevano il

primo posto. La malavita di oggi invece, si tratti

di mafiosi, di camorristi, di criminalità

organizzata, ma anche di raider della finanza, di

tangentisti, di concussori, di corruttori (magari

anche di testimoni in giudizio), di "colletti

bianchi" corrotti, di "ladri in guanti gialli", non

ha né regole né dignità né onore. E una malavita

senza dignità né onore non può che essere lo

specchio e il prodotto di una società senza

dignità e senza onore. Tanto è vero che il confine

fra malavita e ciò che non lo è si è venuto

facendo in questi anni sempre più indefinibile e

molti di coloro che oggi sono sotto processo

hanno un piede in Tribunale e l'altro

nell'imprenditoria, nel mondo finanziario, nella

politica, in Parlamento, se non addirittura nel

governo e nei suoi vertici. E non c'è criminale

più spregevole di quello che delinque sotto il

manto della rispettabilità e proteggendosi con

essa. Non c'è immoralità più grande di quella di

chi pretende rispettabilità sapendo di non

meritarla. Renato Vallanzasca, al contrario, è

sempre stato un delinquente a viso aperto. Oso

dire, signor Presidente, che in questo

immondezzaio che è diventata la vita pubblica e

privata del nostro Paese, fa la parte dell'uomo

morale, sia pur a modo suo. È un bandito onesto

in una società dove troppo spesso gli onesti sono

dei banditi.

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